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REVIEWSLE RECENSIONI
24/01/2019
The Delines
The Imperial
Fotografie di toccante verismo avvolte in un tessuto musicale minimal (ma non scarno), che cita Cowboy Junkies e Spain, e che sviluppa l’idea di un country soul notturno, a tratti trasognato, sfiorato appena da leggeri palpiti rock e blues, e ricamato attraverso eleganti arrangiamenti di pedal steel e fiati.

Archiviata nel 2016 l’avventura con i Richmond Fontaine a favore di una sempre più assorbente attività di romanziere, Willy Vlautin torna sulle scene musicali con il suo side project, The Delines, e un disco, The Imperial, seguito dell’ottimo Colfax, risalente ormai a cinque anni fa. Una pubblicazione, questa, che se da un lato consolerà i tanti fan afflitti dalla chiusura della “casa madre”, grazie a standard qualitativi come sempre elevati, dall’altro, conferma che, nonostante le tempistiche dilatate, i Delines sono qualcosa in più di un semplice esperimento o l’estemporaneo divertissement di un gruppo di musicisti provenienti da diverse estrazioni.

Una sorta di “super gruppo”, composto da nomi noti a chi conosce almeno un po’ la scena alternativa a stelle e strisce: Jenny Conlee, tastierista dei The Decemberists, Tucker Jackson proveniente dai Minus 5, Sean Oldham, anch’egli dei RF, Amy Boone  che presta le propria voce al progetto Damnation TX. E poi, come detto, Willy Vlautin, ispiratore del progetto, collante fra le diverse personalità, compositore delle musiche e, soprattutto, autore dei testi, che, come era per i Richmond Fontaine, hanno un ruolo fondamentale nella riuscita del progetto.

Forte del proprio bagaglio di romanziere, Vlautin scrive liriche come fossero brevi racconti (Eddie & Polly, Holly The Hustle), utilizza una prosa essenziale ma estremamente incisiva, attraverso la quale tratteggia vite e personaggi ai margini, il mondo dei blue collar, dei perdenti, di uomini e donne, costretti dal destino, a vivere intrappolati in un’esistenza che soffoca nella disperazione ogni sogno di fuga e di riscatto. Un’America lontanissima dalla middle class e dall’american dream, i cui personaggi, pur destinati alla sconfitta, sono connotati da quel romanticismo che abbiamo ritrovato, molto spesso, anche nei testi di Springsteen.

Fotografie di toccante verismo avvolte in un tessuto musicale minimal (ma non scarno), che cita Cowboy Junkies e Spain, e che sviluppa l’idea di un country soul notturno, a tratti trasognato, sfiorato appena da leggeri palpiti rock e blues, e ricamato attraverso eleganti arrangiamenti di pedal steel (Tucker Jackson), e fiati (l’ascolto dell’iniziale Cheer Up Charley spiega meglio di cento parole).

Ballate elettroacustiche morbidissime, quasi vellutate, piacevolmente malinconiche, che forse non stupiscono più come accadeva nel precedente Colfax, ma sono di sicuro più mature e consapevoli, non immediate, ma capaci di produrre nuove emozioni a ogni ulteriore ascolto. Nonostante una veste formale impeccabile, è molta la sostanza che sgorga dalla penna di Vlautin: il soul sottotraccia della title track, che lentamente si gonfia di melodia e sentimenti, l’incedere lento e le atmosfere eteree dell’evocativa Roll Back My Life, l’improvvisa accelerazione in crescendo di That Old Haunted Place, processo alchemico di trasformazione del country in rock, sono solo alcuni degli episodi più riusciti di un disco che non conosce momenti di stanca e che arriva esattamente dove voleva arrivare, con mestiere, certo, ma anche con inesauribile intensità.

Se è vero che il lutto per la fine dei Richmond Fontaine non è stato ancora definitivamente rielaborato (né da chi scrive né dai tanti fan della band di Portland), questo sophomore sotto l’egida The Delines rappresenta qualcosa in più di una semplice e magra consolazione, e saprà riempire un vuoto musicale per molti incolmabile. E se non dovesse bastarvi, leggete i romanzi di Vlautin: sono tutti bellissimi.