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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
19/04/2024
Live Report
The Jesus and Mary Chain, 17/04/2024, Alcatraz, Milano
Quarant’anni di carriera ma ancora qualcosa da dire ce l’hanno. The Jesus and Mary Chain vengono all'Alcatraz per la loro unica data italiana regalando con affetto una corposa scaletta con ben 5 pezzi nuovi, tutti perfettamente amalgamati col resto del repertorio, offrendo sprazzi di inaspettata brillantezza.

Passeranno dall’Italia anche l’estate successiva, ma a Milano l’ultima volta li abbiamo visti a dicembre 2021: periodo complesso, con l’epidemia di Covid non ancora scongiurata ma in remissione grazie ai vaccini, e i concerti che molto lentamente sembravano riprendere, sebbene ancora con il pubblico seduto (quello in questione fu però uno dei pochissimi che si poté seguire in piedi, esperienza insolita per i tempi, che alimentò in qualche modo le speranze di un pronto ritorno alla normalità).

Da allora, come si suol dire, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia: accantonate le nostalgiche celebrazioni di Darklands, i fratelli Reid hanno ripreso le fila di una discografia tutt’altro che sterminata, se comparata alla longevità del gruppo, e hanno pubblicato Glasgow Eyes, primo disco di inediti dai tempi di Damage and Joy (2017). Un disco convincente, dalla scrittura discretamente ispirata, senza i guizzi del passato illustre (chi li pretende più, del resto?) ma del tutto in linea con un percorso artistico che non ha mai subito vere e proprie flessioni.

 

La data milanese è anche l’unica italiana ed arriva alle soglie del quarantesimo anniversario dell’esordio Psychocandy (uscito nel 1985); non c’è aria di nostalgia, però. Certamente il pubblico che affolla l’Alcatraz (niente sold out ma c’è comunque il pieno delle grandi occasioni) è composto per la quasi totalità da reduci di quel periodo, ma il gruppo ha un disco nuovo da promuovere e lo mette bene in chiaro sin dall’inizio, aprendo con la nuova “Jamcod”, che sembra oltretutto offrire una fotografia apocalittica della lunga vicenda della band ("There must be an answer to the question I don’t know/It’s too close to midnight and there has to be no show/Breaking up and then falling down and my heart beats too slow/Best notify the other brother, there’s no place to go").

Nella corposa scaletta di questa sera i pezzi nuovi saranno cinque, tutti ben riusciti (tranne forse “Pure Poor”, penalizzata da un’esecuzione un po’ sfilacciata), tutti perfettamente amalgamati col resto del repertorio, in grado anche di offrire sprazzi di inaspettata brillantezza, basti il groove ritmato di “Venal Joy”, la psichedelia ipnotica di “Chemical Animal” o la scontatezza ruffiana dell’instant classic “The Eagles and the Beatles” (un altro brano che può essere letto come autobiografica celebrazione delle origini).

 

Superate ormai da tempo le baruffe isteriche della prima fase di carriera, Jim e William paiono inesorabilmente entrati nella dimensione, forse meno affascinante ma senz’altro indispensabile, di chi vivendo della propria arte deve volente o nolente portare a casa la pagnotta. Stanno sul palco un’ora e quaranta minuti, si mostrano parchi di parole ma estremamente affettuosi col pubblico e fanno di tutto per offrire la migliore prestazione possibile.

È un peccato? Niente affatto, perché comunque siamo qui per la musica, e i Jesus and Mary Chain in questi quattro decenni ne hanno scritta di bellissima, senza per forza tirare in ballo gli ultra celebrati capolavori: attenzione, va benissimo quando partono “Happy When It Rains”, “Nine Million Rainy Days”, “In a Hole”, “Some Candy Talking”, inimitabili nel coniugare rumore bianco e melodia cristallina (e nel risvegliare i soliti cagazzo coi telefonini, purtroppo), ma anche quando si va più in giù nel catalogo e si pescano cose più grezze e leggermente meno conosciute, il livello rimane altissimo. Dalle bordate della conosciuta “Head on” a quelle della meno nota “Cracking Up”, o al rock sporco e vagamente saturo di “Far Gone and Out” e “Blues From a Gun”; persino episodi recenti e sottovalutati come “All Things Pass” (gran bel pezzo trascinante, suonato con piglio e convinzione), danno la sensazione che sia davvero impossibile sbagliare.

In più c’è da dire che la forma è ancora indiscutibile, con una sezione ritmica che spinge il giusto (menzione particolare per l’ultimo arrivato Justin Welch alla batteria) ed una seconda chitarra, quella di Scott Von Ryper, che fiancheggia egregiamente il mastermind William Reid. Il quale se ne sta come al solito al lato destro del palco, la zazzera di capelli grigi come segno inconfondibile (del resto hanno tenuto come loro solito le luci bassissime, abbiamo visto le loro sagome e nient’altro) e senza mai rivolgere uno sguardo o una parola d’intesa al fratello. Non so in che rapporto siano al momento, ma se anche andassero avanti per interesse, non vedo cosa ci sia di male, arrivati a questo punto. Anche perché il tocco sullo strumento è ancora magnifico e la voce di Jim non ha perso molto del suo proverbiale fascino: non c’ero all’epoca ma credo sia altamente probabile che suonino molto meglio adesso.

 

Poco prima della fine arriva anche una sorpresa inaspettata e graditissima: per “Sometimes Always” sale sul palco Marta del Grandi, ad eseguire la parte che fu originariamente di Hope Sandoval. Non la conosce nessuno (del resto non so quanti dei presenti seguano abitualmente la scena musicale contemporanea) e forse neppure loro, visto che Jim si limita ad annunciare: “Abbiamo qui Marta, che canterà con noi questo pezzo”, come se fosse una fan a caso invitata on stage.

Poco importa, è stato un bel momento, anche se a livello vocale lei non è così strabiliante come lo è da autrice di canzoni (andatevi a sentire Selva, se non lo avete ancora fatto). Rimane sul palco per i cori della successiva “Just Like Honey”, forse il loro brano più famoso in assoluto, con cui i nostri si congedano dai fan con un ammiccante: “Se volete sentire qualche altra canzone, fate casino e torneremo”.

Detto fatto. I bis sono quanto di meglio potremmo ricevere a conclusione di una serata già riuscitissima di suo: “Darklands” (ma quanto è bello questo pezzo? Quanto è efficace nella sua inesorabile semplicità di fondo?), “Taste of Cindy”, una “I Hate Rock ‘n’ Roll sempre molto divertente, prima di concludere con una “Reverence” monumentale, lenta e sospesa, concentrato perfetto dell’anima più cupa e visionaria del gruppo.

Quarant’anni di carriera ma ancora qualcosa da dire ce l’hanno. Non è così scontato, al giorno d’oggi.