I Lathums in Italia li avevamo già visti in un paio di occasioni ma sempre in posizione defilata: dapprima c’era stato il breve set all’Ippodromo di Milano nel giugno del 2022, durante la giornata dei Killers. Un anno dopo, ad ottobre, due date in apertura a Louis Tomlinson, a Bologna e a Roma.
L’ottimo riscontro del terzo disco Matter Does Not Define (qui la nostra recensione), che ha finalmente dato un po’ più di visibilità al gruppo anche al di fuori del Regno Unito (in patria avevano già raggiunto la vetta della classifica con i primi due lavori) ha fatto sì che ci fossero le condizioni per organizzare un consistente tour da headliner, che ha per fortuna toccato anche il nostro paese, con una sola data al Santeria di Milano.
Il locale non è particolarmente capiente (circa 500 persone) e fa un po’ strano constatare che non si sia per nulla riempito: vero che i numeri sulle piattaforme streaming non sono enormi, però sinceramente mi sarei aspettato una risposta migliore, soprattutto da una band che propone una ricetta sonora che dalle nostre parti è sempre andata molto forte.
In apertura gli Snookers, dalla provincia di Sondrio, composto da Anita Maffezzini e Federico Fabiani, formato nel 2018 e con all’attivo un buon curriculum fatto di dischi e partecipazioni ad eventi importanti come Musicultura. Una famiglia normale, il loro ultimo lavoro in studio, è dello scorso ottobre. Il loro è un rock potente, con un vestito sonoro moderno (le canzoni sono abbastanza prodotte) e una buona dose di melodia anthemica, ma personalmente mi appare un po’ troppo ordinario e non riesce ad impressionarmi più di tanto anche se i due, occorre dirlo, danno vita ad un’esibizione energica e sentita.
I Lathums attaccano con “No Direction” e “Say my Name”, eseguite con un buon tiro e che accendono immediatamente l’entusiasmo del pubblico.
I quattro (in realtà sono cinque, c’è un membro aggiunto alla chitarra che se ne sta piuttosto defilato nelle retrovie) colpiscono per un look ultra casual (nel senso che sembrano vestiti con la prima cosa che hanno raccattato nell’armadio) e per un atteggiamento spontaneo e compassato, lontanissimo da ogni posa e divismo.
Alex Moore ha la faccia del bravo ragazzo, elargisce al pubblico sorrisi di grande contentezza e parla poco tra un pezzo e l’altro, senza nessun atteggiamento da frontman e anzi, quasi timido nel ricevere il calore e l’affetto dei presenti. Stessa cosa si può dire del chitarrista Scott Concepcion e del bassista Matty Murphy (entrato in formazione due anni fa al posto di Johnny Cunliffe, che aveva suonato sui primi due dischi), mentre l’unico che sia nel look sia nelle movenze prova un po’ a seguire il copione della rockstar è il batterista Ryan Durrans.
Questo particolare modo di essere si riflette nella prova offerta: il loro è un set senza dubbio piacevole, coi pezzi suonati molto bene e con una certa precisione (cori e seconde voci, soprattutto, funzionano benissimo, con Matty e Scott bravissimi a riprodurre quasi alla perfezione i numerosi arrangiamenti vocali delle versioni in studio) ma non c’è quell’impatto deflagrante e quella “cattiveria” che ci saremmo aspettati da un gruppo come il loro. Pur nell’affiatamento generale che lasciano trasparire, pur nell’intesa che riescono a creare con un pubblico scatenato e su di giri, l’impressione generale è che manchi quel quid, quell’aura particolare che fa la differenza tra una buona band e una potenzialmente in grado di prendersi la storia.
È paradossale, da un certo punto di vista, perché il quartetto di Wigan ha una capacità di scrittura superlativa, in grado di declinare le spigolosità degli Arctic Monkeys con le romanticherie struggenti degli Smiths, in una rielaborazione della ricetta Brit Pop che non ha nulla di originale ma che raramente abbiamo sentito esprimere con tale lucidità e consapevolezza.
Non è un caso che, man mano che la setlist ci si dipana davanti, ci si accorga che non c’è nemmeno un pezzo trascurabile: “Leave No Stone Unturned”, “Reflections of Lessons Left”, l’irresistibile singolo “Stellar Cast”, la ruggente “Heartbreaker”, l’acustica “All My Life” (con Alex da solo sul palco ed un ottimo singalong dei presenti), le vecchie “The Great Escape” e “How Beautiful Life Can Be”, che paiono inediti ritrovati del catalogo Morrisey/Marr, sono tutti fulgidi esempi di un canzoniere dalla qualità straordinaria e invidiabile.
Unico difetto, e non dei meno importanti, la durata fin troppo esigua del concerto, che si conclude dopo sessanta minuti scarsi, con una terremotante versione di “Sad Face Baby”. Ci saremmo aspettati almeno un bis di un paio di brani, e invece nulla: i nostri abbandonano gli strumenti e si congedano dai fan, mentre gli speaker diffondono a tutto volume “I’m Still Standing” di Elton John.
Troppo poco, mi sento dire, per una band con tre dischi all’attivo, che ha lasciato fuori pezzi da novanta come “Dynamite”, “Knocking at your Door”, “Struggling”, “Until Our Bitter End”, solo per dirne alcune.
Serata dunque solo parzialmente riuscita, da parte di un gruppo che, per quanto dotato, deve ancora fare parecchio lavoro se vorrà veramente esplodere. Noi ci auguriamo di poterli rivedere presto, possibilmente con un set più ampio e consistente.