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REVIEWSLE RECENSIONI
10/12/2025
Taylor Swift
The Life of a Showgirl
Con The Life of a Showgirl Taylor Swift torna a lavorare con Max Martin e Shellback, chiudendo simbolicamente il lungo capitolo dell’Eras Tour. Il risultato è un album di transizione, elegante eppure irrisolto, lontano dai suoi standard più luminosi, ma dove si può intravedere un barlume di futuro.

C’è qualcosa di profondamente paradossale, quasi ossimorico, nel tentativo di un’artista onnipresente come Taylor Swift di raccontare la propria condizione attraverso un disco che ambisce, almeno nominalmente, a esporre le fragilità dietro il bagliore delle paillettes.

The Life of a Showgirl era stato presentato, al momento dell’annuncio, come un ritorno alle geometrie pop più rigorose, alla disciplina melodica di Max Martin e Shellback, artefici della fortuna di un capolavoro come 1989. Ma il risultato, pur elegante e a tratti ammirevole, sembra collocarsi in uno strano territorio liminale: un album che vuole essere confessione ma che finisce spesso per somigliare a un autoritratto filtrato; un esercizio di autoanalisi condotto attraverso una lente che, più che rivelare, riflette.

Come spesso accade con Swift, il fulcro del disco non è tanto nell’invenzione musicale quanto nella narrazione. Da oltre un decennio la cantautrice americana opera come una sorta di diarista della cultura pop: accumula frammenti, allusioni, scorci di vita privata e li ricompone in un tessuto sonoro che, per quanto mutevole, resta inesorabilmente fedele al suo alfabeto emotivo. The Life of a Showgirl non fa eccezione. È un’opera che osserva la fama né come un trofeo né come una maledizione, bensì come un paesaggio quotidiano, regolato da dinamiche note più a lei che al resto del mondo; e in questo risiede tanto la forza quanto il limite dell’album.

 

Il disco si apre con “The Fate of Ophelia”, il brano più riuscito del lotto, in cui Swift opta per un dinamismo trattenuto, come se la forza del pezzo risiedesse nella tensione tra i pieni e i vuoti più che nel suono in sé. L’eco shakespeariana del titolo richiama la tragica figura di Ofelia, imprigionata tra norma sociale e desiderio: un’allegoria trasparente della condizione di una popstar onnipotente nel discorso pubblico ma intimamente vulnerabile. Colpisce quanto la melodia rimanga ancorata alla formula del midtempo, senza mai lasciarsi andare del tutto.

Se questa apertura promette un disco di esplorazione psicologica, ciò che segue rivela una traiettoria molto meno lineare, persino contraddittoria. La reunion con Max Martin e Shellback è, sulla carta, il momento programmatico del progetto. I due produttori hanno firmato alcuni dei brani pop più influenti degli ultimi vent’anni e con Swift hanno plasmato un linguaggio ormai entrato nella memoria collettiva, basti citare hit come “Blank Space”, “We Are Never Ever Getting Back Together” e “Style”. Qui, però, la scrittura appare diversa: più cauta, più discreta, più tratteggiata che scolpita.

“Wood” e “Opalite” testimoniano perfettamente questa ambivalenza. “Wood”, con la sua impronta disco pop à la Motown, si regge su una pulsazione immediatamente riconoscibile, ma sembra mancare di un centro emotivo. Le sue allusioni erotiche, pensate come segno di maturità, risultano troppo goffe, quasi come se Swift cercasse un linguaggio per esprimere il desiderio senza però sentirsi del tutto autorizzata a usarlo. Più convincente “Opalite”, dove si percepisce una tensione tra il desiderio di un ritorno al pop di 1989 e la compostezza adulta degli ultimi lavori. Il risultato è un suono impeccabile, ma sorprendentemente privo di quella scintilla che un tempo sembrava sprigionarsi spontaneamente dalla collaborazione con Martin e Shellback.

 

Uno dei tratti più riconoscibili della scrittura di Swift è sempre stato la capacità di trasformare sentimenti come la vendetta in perfette canzoni pop. Anche qui lo ritroviamo, ma con esiti più irregolari del solito. “Actually Romantic” vorrebbe essere una risposta ironica e velenosa a Charli XCX, dopo la frizione nata con l’uscita di “Sympathy Is a Knife” su Brat. Il brano rivela però una certa incompiutezza, risultando più un divertissement che una revenge song. Non aiuta la citazione (consapevole o meno) di “Where Is My Mind?” dei Pixies, che sembra suggerire l’intenzione da parte di Swift di flirtare con la ruvidità dell’alternative rock; eppure, con una produzione così levigata, il pezzo ricorda più una demo ripulita che l’impeto grezzo di chi vuole riversare su nastro tutta la propria emotività.

Più toccante è “Ruin the Friendship”, forse il vero nucleo emotivo del disco. Qui Swift abbandona il glamour, le frecciatine e le pantomime della popstar tradita per concentrarsi su un dolore minore ma più autentico: la perdita di un’amicizia adolescenziale. È il terreno in cui eccelle, dove la sua ipersensibilità trova una forma nitida, diaristica, capace di evocare sentimenti universali attraverso il racconto del particolare. È uno dei pochi momenti di tutto l’album in cui la pop star americana sembra davvero disposta a lasciare cadere la maschera.

 

Una parte significativa di The Life of a Showgirl è dedicata all’autorappresentazione della Taylor adulta, costruita attorno a tre assi: fama, sessualità e potere. Swift tenta di raccontare una femminilità in trasformazione, ma spesso ricorre a metafore o doppi sensi che finiscono per attenuare il suo stesso intento. Le allusioni sessuali di “Wood” risultano (come detto) più imbarazzanti che provocatorie, mentre il machismo volutamente esagerato di “Father Figure” – pur sostenuto da uno dei bridge più efficaci del disco – non riesce davvero a sovvertire il codice maschile che vorrebbe di criticare.

Più centrato è il tema della fama, affrontato con maggiore lucidità. In “Elizabeth Taylor”, uno dei vertici dell’album, Swift mette in scena la tensione tra onnipotenza e vulnerabilità, tra ricchezza illimitata e desiderio di essere riconosciuta nella propria fragilità. La canzone trova un raro equilibrio, oscillando tra grandeur cinematografica e confessione intima, come se la popstar ammettesse di abitare un paradosso irrisolvibile, raccontabile soltanto attraverso le canzoni.

 

Ascolto dopo ascolto, colpisce quanto The Life of a Showgirl sia un disco ripiegato su se stesso, un’opera che analizza la forma della celebrità più che la sua sostanza, la fatica dell’esposizione costante più che il significato umano che vi si nasconde dietro. Non è un limite in assoluto (la musica pop è piena di splendidi capolavori autoreferenziali) ma qui l’autoanalisi rimane spesso trattenuta, come se Swift avesse paura di oltrepassare davvero il confine tra figura pubblica e donna reale.

A questo si aggiunge una certa sensazione museale: Swift appare controllata, meticolosa, quasi ossessionata dalla perfezione formale, tanto che c’è chi è rimasto ipnotizzato osservando il suo eyeliner durante l’Official Release Party of a Showgirl e chi mente. Come se, nel tentativo di offrire un’immagine più adulta, avesse finito per trattenere ciò che dovrebbe invece liberarla. La title track che chiude il disco, cantata in duetto con Sabrina Carpenter, è forse l’unico momento in cui l’album suggerisce un futuro possibile. Il duetto è sincero, malinconico, dotato di una grazia narrativa che altrove manca: è l’istante in cui la versione adulta di Taylor Swift (tanto evocata) sembra finalmente prendere forma.

 

In definitiva, The Life of a Showgirl non è il grande disco di reinvenzione che il titolo lascia immaginare, né l’epifania definitiva sul vivere la fama al giorno d’oggi che tutti speravano di ascoltare. È piuttosto un’opera di transizione, il ritratto di un’artista che percepisce l’urgenza del cambiamento ma non ha ancora deciso in che direzione muoversi. La scrittura resta intensa, talvolta brillante (dopotutto Swift è e rimane la migliore penna della sua generazione per distacco), ma la produzione e l’architettura sonora sembrano frenare un racconto che avrebbe bisogno di un respiro più ampio e qualche calcolo in meno.

Tuttavia, come spesso accade nei lavori di passaggio, in The Life of a Showgirl c’è una verità che resterà: quella di una donna che, dopo aver dominato lo spazio pubblico, capisce che la prossima rivoluzione dovrà avvenire nello spazio privato. Forse questo dodicesimo album non rappresenta la sua metamorfosi definitiva, ma fotografa l’istante preciso in cui la corazza della Taylor Swift guerriera e supereroina comincia a incrinarsi, lasciando intravedere un punto di rottura – e dunque, forse, il futuro.