Il 6 giugno del 2002 un fortissimo temporale ha distrutto la più grande quercia (allora) vivente degli Stati Uniti, un gigantesco esemplare del Maryland vecchio di 460 anni, alto quasi trenta metri e sorretto da un tronco di dieci metri di circonferenza. Il nome della quercia era Wye Oak. Per una band che sceglie di chiamarsi così, le occasioni di metafora non sono poche. Pensate alle radici, al territorio, alla storia, alla resilienza. Eppure alla creatività a lungo termine la tradizione può risultare talvolta stretta. Molto meglio mettersi in discussione, per non limitarsi a sopravvivere.
Jenn Wasner e Andy Stack vengono proprio da lì e, proprio come l’albero omaggiato attraverso il nome del progetto in comune, a qualche intemperia devono aver resistito anche loro. Un disorientamento compositivo e un po’ stress da tour dopo i fasti di “Civilian”, il loro fortunato album del 2011 che ha iniziato il duo di Baltimora alla remunerativa industria delle serie tv e delle ricercate colonne sonore di cui le loro produzioni si nutrono compulsivamente, ha portato i due stakeholder a lavorare da remoto, mettendo qualche km in più tra le rispettive ispirazioni. Il risultato è uno stile originale e molto poco chitarristico per chi fa dell’indie-folk. Un modello in costante evoluzione lungo i due precedenti ellepì che giunge, nel 2018, a una probabile pietra miliare della loro carriera, anche se - si sa - del successo dei dischi si può parlare solo dopo.
“The Louder I Call, The Faster It Runs” dimostra la capacità di evolvere canzoni dall’inconfondibile matrice americana e di genere femminile a un livello in cui dream pop, elettronica e indie-rock sono bilanciati perfettamente. Il risultato è costituito da undici composizioni (più un “Tuning” iniziale) che alternano la più naturale immediatezza a una serie di coraggiose complessità strutturali, il tutto con la massima disinvoltura. Sequenze di synth e archi, tempi dispari e accenti spostati non stonano sulle linee melodiche e sul timbro cristallino di Jenn Wasner, spesso armonizzato su più tracce a formare celestiali cantilene folk come nella title-track.
Per comprendere al meglio questo sforzo re-interpretativo basta ascoltare “Over and over”, una delle canzoni più originali che ci piace immaginare registrata nel più country dei modi e poi, spazzata via la base fingerpicking, ricostruita in modalità Wye Oak per un risultato davvero sorprendente. Il resto del disco alterna episodi più intimi come “You of all people” a canzoni più confortevoli come “Life”, “Join” e “It was natural”, in cui non mancano mai gli espedienti per non risultare avulsi dal contesto. Il duo osa ancora di più con “Symmetry” e “Say Hello”, mentre l’intermezzo “My Signal” si distingue per l’uso della voce e per gli interventi di archi scomposti.
Ma è con “I know it’s real”, la traccia conclusiva, che i Wye Oak rendono al meglio il loro modo di intendere la musica. C’è tutto quello che nei brani di “The Louder I Call, The Faster It Runs” hanno dosato sapientemente per non forzare la mano con i registri che sembrano essere quelli più distintivi della loro essenza. Strofe morbide e modernamente intese, accompagnate da una linea di basso synth che non stonerebbe in una di quelle canzoncine del Vince Clarke di “Speak and Spell”, alternate a un ritornello lirico e dolorosamente ricco di passione con richiami a tratti progressive che ci lasciano con il dubbio se, questo nuovo lavoro dei Wye Oak, non possa davvero essere una delle migliori cose uscite quest’anno.