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REVIEWSLE RECENSIONI
26/05/2021
Manchester Orchestra
The Million Masks of God
Il sesto disco dei Manchester Orchestra, “The Million Masks of God”, vede la band di Atlanta proseguire il percorso intrapreso con il precedente “A Black Mile to the Surface”, offrendoci un concept album dalle forti tinte cinematografiche.

A dirla tutta, quella tra Taylor Swift e Aaron Dessner dei The National non è stata la collaborazione più sorprendente del 2020, e neanche quella che ha dato i risultati più inaspettati. Già, perché lo scorso anno è uscito – piuttosto in sordina, va detto – Wilted di Paris Jackson, un album davvero particolare, per il quale la figlia del fu-King-of-Pop ha scelto di affidarsi a Andy Hull e Robert McDowell dei Manchester Orchestra, i quali hanno cesellato per lei canzoni che stanno a metà strada tra il dream pop di Mazzy Star e il folk dolente e notturno di Sea Change di Beck. Un disco immersivo, catartico, cinematico, che – a pensarci bene – funge da perfetto tassello di congiunzione tra il nuovo album della band di Atlanta, The Million Masks of God, e il precedente A Black Mile to the Surface del 2017.

Tecnicamente parlando, A Black Mile to the Surface era il seguito diretto di Cope (è vero, in mezzo c’è stato il suo gemello acustico Hope), ma quel disco vedeva i Manchester Orchestra prendere decisamente le distanze dal suono aggressivo e chitarristico del suo predecessore, abbracciando invece delicate sonorità cinematiche, ispirate al lavoro svolto da Hull e McDowell per la colonna sonora del film Swiss Army Man. Quattro anni dopo, The Million Masks of God prosegue esattamente su quella strada e vede la band di Atlanta operare ancora una volta seguendo un concept, esplorando sì temi universali come la nascita e la morte (e tutto ciò che ci sta nel mezzo), ma ricondotti all’esperienza concreta della morte per cancro del padre di McDowell.

Come ha perfettamente sintetizzato su Instagram Jeremy Bolm dei Touché Amoré (con i quali Hull ha collaborato nel recente Lament), The Million Masks of God, nonostante abbia un suono coerente e una struttura interna coesa, si può idealmente dividere in due. C’è infatti un Lato A, dove sono raggruppare le canzoni per così dire più Pop, con i ritornelli in primo piano, e c’è un Lato B, con le composizioni più intime, drammatiche ed emotive, dove i Manchester Orchestra ibridano il loro sound post-hardcore avvolgendolo di chitarre acustiche, archi e qualche elemento elettronico. Affiancati ancora una volta da Catherine Marks (Foals, Wolf Alice, ma anche l’ultima Alanis Morissette), per creare questa sorta di montagna russa sonora ed emotiva i Manchester Orchestra si sono fatti aiutare anche da Ethan Gruska (Phoebe Bridgers, Perfume Genius), il quale ha aggiunto al disco il suo tocco, assieme a qualche spruzzata di tastiere, chitarre e percussioni.

Ovviamente il peso del disco è tutto sulle spalle della voce e della penna di Andy Hull, che con il suo tenore – che ricorda molto da vicino quello di Jim James dei My Morning Jacket – crea forse la collezione di canzoni dei Manchester Orchestra più accessibile e allo stesso tempo più emotiva e vulnerabile. Difficile quindi rimanere impassibili davanti alla forza di pezzi come “Bed Head” (con un ritornello che non esce più dalla testa) e “Keel Timing”, ma anche alla bellezza e alla poesia di “Telephat”, all’emozione di “Obstacle”, per arrivare al meraviglioso doppio finale di “Way Back” e “The Internet”. Una conclusione perfetta per un album che con i suoi alti e bassi emotivi e sonori cerca di ripercorrere la brezza dell’esistenza umana, portando l’ascoltatore in un viaggio intenso, commovente e unico. Come quello di ognuno di noi.


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