Sono passati sei anni dall’ultima volta che i National hanno suonato a Milano, nella cornice parecchio controversa della zona Expo, sede per quell’anno dei famigerati I-Days, vale a dire una delle rassegne che più di tutte sta contribuendo a distruggere l’esperienza della musica dal vivo nel nostro paese. Successivamente la band americana è passata da Ypsigrock in Sicilia (che è esattamente l’opposto dello schifo di cui sopra) e da La prima estate al Lido di Camaiore, segno che hanno un po’ ridimensionato le capacità di riempire grossi spazi, una caratteristica che, almeno a mio parere, non è mai stata nelle loro corde: per quanto all’estero siano headliner nei festival e suonino spesso in spazi molto capienti, per caratteristiche intrinseche e visione questa sarà sempre una band da club, alla peggio da arene di medie dimensioni.
È per questo che il Carroponte, location che da uno dei centri della musica alternativa a Milano ha visto la propria programmazione divenire negli ultimi anni sempre meno interessante, ci è sembrata la scelta migliore; il fatto che non risultasse pieno fino alla massima capienza è un’ulteriore prova del fatto che il salto ai grandi numeri Matt Berninger e compagni non lo faranno mai (e aggiungo per fortuna, da parte mia).
La pioggia che è caduta abbondante nel tardo pomeriggio e che è andata avanti poco prima dell’inizio mi ha fatto seriamente temere per la tenuta del palco (in passato qui ho visto diversi concerti annullati all’ultimo momento per questo motivo) ma bisogna dire che quando arrivo sul posto, nonostante gli ombrelli, i kway e il fango con cui bisogna sporcarsi i piedi per arrivare sotto al palco, regna un’atmosfera di generale ottimismo.
Per una volta la realtà ci dà ragione, perché già pochi minuti prima la situazione migliora e riusciremo a goderci tutto il concerto senza che dal cielo cada una sola goccia.
I National del 2024 sono una realtà consolidata ma anche un po’ scontata: dopo una carriera ultra ventennale, il cui apice pare già da tempo essere stato raggiunto, rimanere sulla cresta dell’onda senza smettere di produrre dischi rilevanti, non è affatto semplice (diciamo che non ce l’ha mai fatta nessuno, tra le band con una carriera lunga alle spalle): loro hanno optato per una soluzione di mezzo, perdendo molta dell’immediatezza di Boxer, che li aveva resi un’icona dell’Indie Rock mondiale, ma acquistando in ricercatezza espressiva e soluzioni in capacità di arrangiare i brani. Il risultato è che, se i detrattori possono anche avere buon gioco nel ritenere che scrivano sempre la stessa canzone, è altrettanto vero che il livello qualitativo di tutte le loro uscite da dieci anni a questa parte sia altissimo, e che persino l’ultimissimo Laugh Track, da più parti criticato per la prolissità e per il fatto di essere arrivato troppo a ridosso di First Two Pages of Frankenstein, sia un lavoro che qualunque gruppo con così tanti anni sulle spalle venderebbe l’anima per produrre.
Forse anche sull’onda di questo, pare che il gruppo stia vivendo una vera e propria seconda giovinezza. Il concerto di due giorni prima al Primavera Sound, per me che non li vedevo da sei anni, è stato folgorante, per intensità e messa a fuoco, ragion per cui le aspettative per questa successiva data erano altissime.
Si parte con le casse che mandano “Slippery People” dei Talking Heads, che col suo ritmo Afrobeat e la melodia aperta crea un inusuale contrasto con ciò che ascolteremo di lì a poco. L’inizio di questa sera è affidato alla malinconia introspettiva di “Once Upon a Poolside”, prima che le due bordate elettriche di “Eucalyptus” e “Tropical Morning News”, entrambe dal penultimo disco, ci scaraventino nel mezzo della serata.
La formazione è quella solita (è un’ulteriore nota di merito, quella di aver mantenuto una line up stabile per tutta la loro storia) con anche la presenza dei membri aggiunti Ben Lantz e Kyle Resnick, impegnati ai fiati (rispettivamente trombone e tromba) e ai sintetizzatori, componenti fondamentali per un suono ricco e stratificato come il loro.
Essendomi perso il tour del 2022, forse non sono in possesso di tutti gli elementi necessari per giudicare, ma rispetto all’ultimo passaggio milanese del 2018, mi sembra di aver davanti un gruppo ringiovanito. A colpire è soprattutto l’impronta sonora, che al contrario delle ultime produzioni in studio, si è fatta molto più compatta e meno rarefatta. È infatti paradossale che, proprio nel momento in cui in studio hanno spinto sempre più avanti l’asticella della complessità e della ricerca, diventando via via sempre meno accessibili, dal vivo siano ora divenuti potentissimi, con le chitarre dei gemelli Dessner mai così esplosive (già nelle parti soliste di “Tropic Morning News” sono apparsi devastanti), una dose di elettronica molto ridotta rispetto ai tempi di Sleep Well Beast, e l’inarrestabile moto propulsivo di Bryan Devendorf, batterista eccezionale, a mio parere mai sufficientemente celebrato, questa sera con ritmiche che a tratti hanno toccato pure il motorik di scuola Neu! e Can.
Tromba e trombone hanno riempito alla grande e offerto profondità, nonostante soprattutto nelle fasi iniziali non uscissero come avrebbero dovuto (la resa sonora è stata comunque più che soddisfacente, nonostante i volumi non altissimi tipici dei concerti outdoor nel milanese).
E poi c’è Matt Berninger. Il singer è sempre stato un po’ un’arma a doppio taglio nel gruppo: timbro affascinante e caratteristico, dal vivo a tratti incostante ed impreciso, nonostante il carisma e le doti da frontman. In questo giro di concerti ci è sembrato parecchio in forma, allegro e gioviale, ha fatto le sue consuete scorribande in mezzo alle prime file e ha cantato con grande precisione ma soprattutto con un’intensità pazzesca, particolare che fa la differenza, quando non si è particolarmente dotati tecnicamente.
Anche per questo, la prova degli americani è stata superlativa, in tutto e per tutto in linea con quella immediatamente precedente del Primavera Sound, con la differenza che qui hanno suonato di più (addirittura due ore e venti, non ricordo un loro concerto così lungo, sinceramente) e che la dimensione più raccolta ha reso molto più potente l’aspetto emozionale.
Parecchi i momenti memorabili, dunque, all’interno di una scaletta come sempre equilibrata e per niente schiava dell’effetto nostalgia (per cui anche stasera la quota proveniente dagli ultimi dischi, o comunque dal passato più recente, è abbondante): se dovessi sceglierne due, probabilmente indicherei “Smoke Detector” e “Space Invader”, che rappresentano anche due momenti per certi versi innovativi nella discografia dei nostri, visto che superano i sette minuti e giocano moltissimo sulle code strumentali che mischiano chitarre e sintetizzatori. Dal vivo tutto questo viene accentuato (è forte il contrasto soprattutto in “Space Invader”, che ha una prima parte quasi acustica) e l’esplosione rumoristica e vagamente Kraut con le chitarre dei Dessner a guidare le danze, è una di quelle cose che fanno godere veramente tanto.
Anche “Abel”, gradito ripescaggio dai primi passi del gruppo, è una botta di energia mica da ridere, mentre sull’altro fronte, pezzi più raccolti come “Laugh Track” (magnifica anche senza l’intervento di Phoebe Bridgers) o “Pink Rabbits” (per il sottoscritto uno dei loro brani più belli di sempre) vengono gestiti con una delicatezza che sfiora il pudore, mettendo bene in chiaro che una band in grado di padroneggiare in questo modo colori così contrastanti non può che possedere una statura enorme.
È stato tutto memorabile, anche se forse “Conversation 16” e l’incredibile sorpresa di “Cherry Tree” (in assoluto il pezzo più vecchio della setlist) si faranno più ricordare di altre, proprio perché non è così facile sentirle.
Poi c’è “il solito”, con una “Bloodbuzz Ohio” come sempre sofferente e il palco che si colora di rosso, “Fake Empire” con un occhio alle imminenti elezioni americane (in quest’ottica “Mr. November”, che a Barcellona era stata dedicata a Neal Katyal, qui è stata suonata per Joe Biden), “Graceless”, che è come sempre una cavalcata tiratissima, “About Today” che questa sera è semplicemente magnifica per come esplode in un finale dal crescendo quasi Noise.
E infine, “Vanderlyle Crybaby Geeks”, con le chitarre acustiche, il pubblico a cantare, e Matt che dirige il singalong, per un congedo scontato ma sempre ad effetto.
Ancora rilevanti dopo venticinque anni di carriera: non molte band possono dire di esserlo, forse nessuna a parte loro. Al di là dei gusti personali, credo che i National in questo momento non possano assolutamente essere discussi.