Atmosfera frammentata in sottofondo, l’abituale chitarra acustica, grezza ed inconfondibile, che arpeggia e scandisce la bellissima armonia su cui si posa quest’offerta in versi di Damon Albarn. Un messaggio diretto e schietto, che sa di purezza ma anche, in certo senso, di resa e di disarmo. Così sono e così siamo. L'offerta della title track è senza fronzoli e fa sentire l'ascoltatore al centro del mondo sonoro che è stato creato.
“The Cormorant” è il naturale prosieguo di questo mood introduttivo, addolcito e accompagnato da una lentissima samba, dove emerge anche l'inconfondibile sapore chitarristico di Simon Tong, lo stesso che ha portato prima nei The Verve e poi nei The Good, The Bad & The Queen.
L'atmosfera quasi sospesa che si stava creando nelle prime due tracce viene troncata con maestria da “Royal Morning Blue” e dal suo tempo upbeat: incalzante, rimarcato dal basso e dal sax baritono. Colpisce la gioia e il senso di casa che si respira nell'ascoltare il timbro di voce di questo maestro del pop: familiare, dolce, imperfetto, espressivo.
“Combustion” nasce e muore in un attimo, sorge dalle ceneri della bellissima “Royal Morning Blue” per posarsi nella successiva “Daft Wader”. Ed è solo in questo momento che si comincia a sentirsi parte dell’immaginario costruito col suono e con le immagini, in primis quelle della cover. E' qui che si pensa allo spazio, alle previsioni e al futuro, di cui non sappiamo niente tranne quanto sia affascinante stuzzicarlo, salvo ricomporsi al primo sussulto d’incertezza e ripiegare saggiamente sul rispettarlo. Per aspettarlo. Penso al monolite di 2001: Odissea nello spazio che quella struttura scura in copertina sembra volermi far ricordare. Mi piace perché senza volerlo penso alla musica classica, da cui questo album è sicuramente ispirato. Siamo di fronte ad un’opera contemporanea nell’accezione paradossale che da sempre attribuisco a questo termine: non tanto il legarsi al presente, quanto ad una musica che, partendo da un radicamento nell’attualità, ovvero la massima evoluzione del passato, strizza l’occhio ed indirizza le mire su qualcosa di nuovo, il futuro.
“Darkness To Light” parte come un insolito standard jazz, salvo ricomporsi e prendere le sembianze di una tipica creatura ibrida di Damon Albarn: un synth glaciale, una chitarra appena intuibile, arpeggiata e terzinata sul tappeto dei suoni larghi di Simon Tong, convivono con un piano ed un sax più tipici di una ballad, il tutto stretto intorno a dei finti clap. Si resta un po’ così, affascinati in uno stato in cui non si capisce dove sia il vero e dove il falso. Dove sia la realtà.
L’atmosfera di “Esja” respinge di nuovo fuori dalla bolla delle rievocazioni e costringe a mettere la testa fuori dai sotterranei, per vedere cosa è rimasto di quello che conoscevamo. Ed eccola, la realtà: tesa, desertica, apparentemente spaventosa ma terribilmente attraente, quanto un silente film di fantascienza. Siamo in bianco e nero, siamo nel futuro, questo è quello che siamo portati a pensare. Anche se io penso invece sia il presente. E lo capisco per quello squarcio di mare, intuibile tanto sulla base sonora quanto sullo sfondo della copertina. Adesso lo sappiamo, quello che è reale.
Il viaggio con Damon Albarn, però, non si ferma qui, c’è ancora molto da dire. L'artista ci tende la mano e ci offre la salvezza, sotto forma di un’alba di suoni, voci prese in un momento qualunque, luci e colori che portano diretti al prossimo capitolo.
La bossa stavolta è più netta, decisa, priva di fraintendimenti, salvo affogare nel mix per lasciare spazio alle parole: “As the hours slide off the page, like clouds somewhere else”. “The Tower of Montevideo” si pone come portatrice di un messaggio. Ci penso e nel frattempo si esaurisce la carica sonora della canzone, per lasciarci con le briciole che ne rimangono: schegge, accordi di piano che sembrano vetri, comunque armonici, qualcosa su cui si potrebbe forse anche camminare, quasi fosse uno specchio d’acqua.
“Giraffe Trumpet Sea” ci scorta verso qualcos’altro, come un Caronte qualsiasi. “Polaris”, con la sua forma da pop elementare e giocoso in cui emerge una tastiera Elka. Infine “Particles”: un saluto, una carezza, l’abbraccio che un amico o un amante che ti rivolge, stringendoti mentre ti rivolge le raccomandazioni che ti ripete ogni volta, e a cui ogni volta ti aggrappi.
“When the night patterns the room. And black sands return. I will drift away from land. As the sky begins its burn”.
Sembra che si possa uscire dai sotterranei, che si debba, ma che “Only you, darlin’, can call me back in”. Solo tu puoi richiamarmi dentro. Il bello per me è fuori, ma per te e solo per te tornerei dentro.
“The nearer the fountain, more pure the streams flow”.
La fine coincide con l'inizio. Ed è incredibile come, nonostante la parola non sia mai nominata, ci si ritrovi a pensare alle stelle, forse perché “For the particles enjoy us, as they aligned on your skin”. I riflessi delle costellazioni si rispecchiano nell’acqua per poi allinearsi sulla nostra pelle. L'album è concluso, possiamo uscire "a riveder le stelle”.