È decisamente una fortuna che i Necks, certamente non un gruppo di facile presa, siano così presenti nel nostro paese, in un'epoca in cui per chi come loro viene da oltreoceano, è divenuto poco sostenibile andare in tour regolarmente.
Il trio australiano, però, ama l'Italia e in Italia può godere di uno zoccolo duro di appassionati, ragion per cui le occasioni per vederli all'opera non mancano mai.
La data milanese, ancora una volta nel bellissimo Spazio Teatro 89, arriva a poche settimane di distanza dalla pubblicazione di Disquiet, ennesimo capitolo di una discografia ormai sterminata. Questa volta però si sono superati: un album triplo, quattro tracce in tutto, la più lunga delle quali si dipana per la bellezza di 75 minuti. Niente di particolarmente diverso dal solito, anche se la forma dilatata oltre l'uso fa sì che si tocchino territori in parte inesplorati e si raggiungano livelli di astrattezza e concettualità persino superiori a quelli del precedente Bleed, probabilmente il loro lavoro meno accessibile da molti anni a questa parte.
Chi li segue dal vivo, però, sa benissimo che tutto questo ha un'importanza relativa: sul palco Chris Abrahams, Lloyd Swanton e Tony Buck si muovono nel vasto e misterioso mondo dell'improvvisazione, entrano in scena e lasciano che la musica accada, che sera dopo sera dalla loro interazione telepatica si sprigioni sempre qualcosa di diverso.
La sala è nel complesso gremita, nonostante qualche posto vuoto; il pubblico, dall'età media piuttosto elevata (abbastanza ovvio, direi), ha risposto bene, cosa non scontata considerato tutti i concerti che ci sono a Milano in questo periodo, Jazzmi compreso.
Alle 21.30 spaccate le luci si spengono e i tre Necks raggiungono le rispettive postazioni, accompagnati da applausi scroscianti.
Ogni volta è importante capire da chi prenderà avvio il tutto, perché il punto di partenza è importante per determinare gli indirizzi futuri dell'improvvisazione.
Chris Abrahams accarezza dolcemente i tasti del pianoforte e, come spesso accade, occorre un po' di tempo prima che prenda forma una melodia, i primi momenti sono come un girare attorno alle note, reiterare nuclei minimali di suono, come a ricercare un terreno solido a cui appoggiarsi.
Lloyd Swanton lo ascolta per un po' prima di lavorare sul contrabbasso, sfiorando le corde con l'archetto, dapprima timidamente, poi, avendo trovato un appoggio sulle tessiture del collega, muovendosi con maggiore sicurezza.
Tony Buck non tiene il tempo, ma usa la batteria come strumento a se stante, riempiendo gli spazi lasciati liberi dagli altri due, massaggiando con le spazzole il rullante e spostando il tutto in una dimensione di forte sospensione.
Poi succede quello che succede sempre, e come ogni volta lo si capisce quando è già realtà davanti ai nostri occhi: la marea sale, il ritmo accelera, i tre strumenti si fondono in un unico flusso omogeneo, il crescendo è costante e le progressioni messe in campo disegnano tessiture ipnotiche nelle quali si rimane profondamente intrappolati.
Come era iniziato, finisce: rallentamento costante, allontanamento graduale dal centro della composizione, sfilacciamento progressivo degli intrecci, dissolvenza, silenzio.
Gli applausi frenetici che seguono, dopo un breve istante necessario per riprendersi, certificano che anche questa volta i tre australiani hanno colto nel segno, nonostante ci abbiano proposto linee di sviluppo tutto sommato convenzionali, nell'ambito del loro modus operandi.
Prima che cominciassimo a pensare che fosse stato troppo breve per poter finire così, ecco che Lloyd Swanton presenta se stesso e i suoi compagni d'avventura e annuncia che si prenderanno alcuni minuti di pausa, per poi tornare con un altro set.
Giusto il tempo per una sosta al banchetto del merchandising, dove è lo stesso contrabbassista a vendere l'ultimo Disquiet e un nuovo modello di maglietta (“Taglia extra large”, così ci entrate tutti!) e via di nuovo con la musica.
Questa volta è Buck a partire, subito raggiunto da Swanton, così che i fraseggi pianistici di Abraham prendono le mosse dal ritmo imposto dagli altri due. Questa nuova composizione è meno frenetica, meno ossessiva, preferisce adagiarsi placidamente su ricami meditativi che lambiscono il Jazz classico e si fermano sempre un attimo prima di divenire eccessivamente intricati. Solo verso la fine si verifica un certo sommovimento, con contrabbasso e batteria che vorticano insieme e il pianoforte che tiene il passo. Rimane tuttavia presente il feeling di sospensione, come se a questo giro non occorresse spingere troppo.
Momento nel complesso più interessante del primo, anche se in generale si è trattata di un'altra solidissima prova da parte dei nostri.
Hanno promesso di tornare presto e speriamo davvero sia così: per quanto impegnativo, i Necks sono un gruppo di cui è impossibile fare a meno.


