“He left the crime scene without the Motorola/Still had dreams of being Gianfranco Zola”
Sto entrando in un labirinto e non ho nessuno che mi aiuti a ritrovare l’uscita. Non c’è nessuna Arianna con nessun filo che mi aiuti a districare il mio ingresso nell’oscurità. Mi appiglio a tutto, invoco la misericordia di Melki-Tsedek, che mi sia di conforto in questo mio viaggio.
Non vi sembrino le mie parole la follia di un pazzo, ma l’ora e sei minuti dentro la mente di Archy Marshall è una delle esperienze più traumatizzanti che possiate ascoltare. Un ragazzo londinese di poco più di venti anni, rossiccio di capelli e bianco come una mozzarella, che ha rubato il nome ad un film di Elvis Presley, King Creole=King Krule e che ha creato un incubo degno di Lovecraft quando descriveva l’arabo pazzo Abdul Alhazred e la follia di Yog-Sothot.
Ma non fraintendetemi, non c’è nessun racconto dell’orrore qui dentro, se non quello della solitudine e della depressione. Attraverso sonorità mutuate a volte dall’r’n’b come nell’iniziale “Bisquit Town”, ai ritmi industrial della terrorizzante “Dum Surfer”, alla chill wave malata di “Slash Puppy” è come assistere alla progressiva disgregazione di un essere umano. Ma ancora: “The Locomotive” è il tuo appuntamento con l’ignoto senza una destinazione certa, con “Sublunary” sei già pronto a salutare la compagnia e a sprofondare negli abissi (per darvi un’idea fate un giro virtuale nei canyon della Vallis Marineris marziana per capire cosa intendo per abisso). Ma il disco riserva altre suggestioni, come ad esempio l’utilizzo del sax come reminiscenza del free jazz che fu, come ad esempio in “Cadet Limbo”, “Lonely Blue” è come ascoltare un Brian Ferry sfatto e drogato, “Emergency Blimp” è post punk suonato su un registratore a cassette congelato e ritrovato trent’anni dopo, in “Czech One” si sprofonda in un baratro narcolettico per poi riemergere a fatica con il rockabilly spastico devoto ai Suicide di “Vidual” e con un blues malato cantato come un Johnny Cash che non ha ricevuto redenzione nella bellissima “Half Man Half Shark”.
“The Cadet Leaps”, “The Ooz” e “Midnight” sono la calma dopo una devastazione nucleare, è l’aggirarsi in un paese senza più traccia di edifici e di umanità con la fatica di trovare l’aria per respirare.
Trovatomi ormai perso e senza speranze, “La Lune” il pezzo che chiude l’album arriva con queste parole: “They found reasons to try?Clone the sea at night?Brave waves bathe the eye?Well I crave ways to dry” che mi lasciano un piccolo barlume di speranza di avere la possibilità di risalire dall’abisso, sperando di non affiorare sulla faccia nascosta della luna.
Quel che posso dirvi in tutta sincerità è che non è stato un viaggio di salute l’ascolto di The Ooz; quel che è certo è che Archy Marshall, con delle non-canzoni così come siamo abituati a conoscere, con degli abbozzi di melodia subito abortiti, piccoli accenni di chitarra elettrica e sax, definisce i confini tra la musica che scuote l’anima e tutto il resto.