Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
REVIEWSLE RECENSIONI
11/02/2022
Yard Act
The Overload
Suonano benissimo, il disco funziona e hanno un’impronta generale piuttosto scarna, col centro propulsivo nella sezione ritmica. Dopo essere stati categorizzati (forse un po' a sproposito) nell'ondata di post punk 2.0 che sta spopolando negli ultimi anni, dei Yard Act e del loro nuovissimo The Overload si può dire con certezza una cosa sola: è l’ottimo esordio di un'ottima band.

Suona piuttosto strano, per lo meno alle mie orecchie, che gli Yard Act stiano venendo celebrati all'interno di questa sorta di “Post Punk 2.0” che, ormai è una certezza, costituisce il principale trend musicale di questi anni venti di nuovo millennio. Saltando a piè pari la discussione sull’opportunità del termine (Post Punk vuol dire tutto e niente, come un po’ tutte le etichette di genere) sarebbe il caso di sottolineare quanto il quartetto di Leeds sfugga ad una caratterizzazione sommaria e costituisca a modo suo un unicum, nonostante una proposta in molti sensi derivativa. 

Innanzitutto, se ogni volta che qualcuno si mette a recitare versi su una base chitarristica tiriamo in ballo Mark E. Smith, significa che qualcosa sta sfuggendo di mano. James Smith ha in comune con l'icona mancuniana solamente il cognome (che poi capirai, è lo stesso per milioni di persone in tutta l'Inghilterra) per il resto ha detto chiaramente che la sua ispirazione viene dall'Hip Pop, che suo padre ascoltava in grandi quantità e che gli ha permesso, sin dall'infanzia, di operare un percorso a ritroso che partiva da Eminem ed arrivava fino ai Wu-Tang Clan e a Dr. Dre. 

E poi ci sono le chitarre: Sam Shjipstone è un vero fantasista e le sue evoluzioni melodiche hanno ben poco a vedere con quelle dei Fall, ricordando piuttosto, in alcune calde geometrie, il compianto Andy Gill. 

Se di Post Punk si può parlare, quindi, meglio tirare in ballo i Gang Of Four, che di quell'ondata creativa rappresentarono indubbiamente il lato più “solare” (mi sia lecito usare questo aggettivo) e irriverente, ancora in qualche modo legato alle forme del rock, piuttosto che intriso di sperimentazione avanguardistica. 

Nel caso degli Yard Act, tuttavia, pesa tantissimo anche l'ultima stagione del Brit Pop, perché ascoltando certi ritornelli vivaci e saltellanti non possono non venire in mente Arctic Monkeys e Kasabian, anche se è innegabile che Smith e compagni siano decisamente più simpatici. 

Da ultimo, siamo su territori lontanissimi anche rispetto ai Dry Cleaning, l’act di South London il cui New Long Leg è stato in assoluto uno dei dischi più lodati del 2021. Vero che anche Florence Shaw fa largo uso dello spoken, vero che il lavoro chitarristico di Tom Dowse è fantasioso ed imprevedibile, ma a livello di intenzioni ed atmosfere questi ultimi risultano senza dubbio più scuri e introspettivi. 

Tutto questo per dire che sì, possiamo anche inserire gli Yard Act nel calderone “nuovi gruppi inglesi con le chitarre in primo piano” ma bisogna anche fare chiarezza sulla loro spiccata individualità. 

Non si può però evitare la domanda che in tanti si stanno facendo, ora che il disco d'esordio The Overload è finalmente fuori: “Ne vale davvero la pena?”. 

Per quel che vale la mia opinione dico di sì, a patto che riusciamo a rimanere sufficientemente equilibrati e a non sbavare eccessivamente nei confronti di un gruppo che certamente sta lasciando trasparire un potenziale notevole ma che allo stesso tempo parla un linguaggio che rischierà presto di ritornare obsoleto, considerato anche che viviamo nell'epoca dell'ultra istantaneo. 

I numeri per il momento non sono altissimi ma l’attenzione mediatica è comunque alta: il primo singolo “Dark Days” li ha rivelati al mondo, assieme ad un primo Ep di quattro brani che ha fatto crescere l'hype per l'album di debutto. “The Overload”, che prima di esserne la title track era uscito come singolo, è stato incluso nella colonna sonora di Fifa 22: non per forza una consacrazione ma senza dubbio un passo in più verso la dimensione mainstream. 

Ci sanno fare, hanno un'immagine pulita e divertente, da ragazzi della porta accanto che non si prendono troppo sul serio ma che allo stesso tempo sono perfettamente consci dei rischi del successo: la manciata di video che hanno buttato fuori è abbastanza eloquente in proposito. 

Suonano benissimo, hanno un’impronta generale piuttosto scarna col centro propulsivo nella sezione ritmica: il bassista Ryan Needham e il batterista Jay Russell combinati insieme fanno veramente faville, le canzoni sono tutte costruite sulle loro pulsazioni e quando, accade spesso nei finali, entrano le percussioni l'effetto è davvero notevole. 

Sam Shjipstone, l’abbiamo già detto, è un autentico talento espressivo ed è soprattutto grazie a lui se i vari episodi risultano così vari tra loro, tanto da dare al disco un carattere sorprendentemente eterogeneo, considerato il genere proposto. Oltretutto, laddove potrebbe essere un'impresa per gli ascoltatori più in difficoltà con l'inglese, star dietro ai monologhi di James Smith, ecco che puntualmente arriva un ritornello irresistibile a rimettere tutti in carreggiata. 

Il punto di forza sono senza dubbio i singoli, dalle bordate della title track e di “Payday”, al basso ipnotico di “Rich”, fino all'andamento sghembo di “Land of the Blind” (a mio parere il brano dal potenziale più elevato), col suo coretto sgangherato che crea immediatamente dipendenza. 

In realtà però funziona tutto, episodi come “Dead Horse” e “The Incident” hanno un lavoro di chitarra che valorizza il lato melodico e dei ritornelli molto incisivi e cantabili, che mi hanno personalmente ricordato una band come gli Skyclad, oggi dimenticata ma che portava avanti un discorso simile soprattutto a livello testuale. 

Con “Witness (Can I Get A?)” i nostri fanno poi una breve incursione in territorio Punk, con una traccia da un minuto e mezzo tirata e rabbiosa, che non rinuncia però ad una buona dose di ironia. “Pour Another” è simile nelle intenzioni, anch'essa scanzonata e particolarmente catchy nelle melodie, per una volta fanno a meno del parlato e confezionano una traccia molto più vicino al Brit Pop rispetto al resto. 

Sul lato opposto c’è invece “Tall Poppies”, che dura quasi il triplo di una loro canzone media e che nell'arco delle sue otto strofe, senza ritornello e inframezzate da una chitarra in pieno mood slacker, tra Pavement e Courtney Barnett, racconta la vicenda di un individuo comune, all'interno di un paesino qualsiasi dell'Inghilterra. È il sommario di un'esistenza, dalla nascita alla morte, di un ragazzo di talento che ci sapeva fare a calcio e con le donne, ma che di fatto non uscirà mai dal suo villaggio, si sposerà e troverà un lavoro ordinario, avrà dei figli e dei nipoti e infine morirà, lasciando nulla più di un piacevole ricordo nel cuore di chi lo ha conosciuto. 

È un brusco risveglio, dopo tutta l’ironia di stampo prettamente sociopolitico che dominava negli altri brani. Se in “Rich” prendevano in giro le loro stesse ambizioni, consapevoli che tutto è labile e forse neanche vale lo sforzo, qui Smith va oltre, provocandoci sul fatto che il nostro passaggio sulla terra, pur se positivo e piacevole, probabilmente non ha tutta l'importanza che gli attribuiamo mentre siamo vivi. Cosa rimane del protagonista di questa canzone? Solo una targa posta su una panchina sulle rive del fiume, “con una citazione sulla vita e sulla morte tratta da una canzone che non ha mai sentito, perché non amava particolarmente le canzoni lunghe con tante parole” (impossibile non cogliere un altro ammiccamento divertito alla loro stessa musica). “We are just trying to get by” dice alla fine e forse, in fondo in fondo, potrebbe essere tutto qui. 

Decidete voi se vi basta o meno. Dal canto mio posso dire che, riflessioni esistenziali a parte, potremmo davvero prendere The Overload per quello che è: l’ottimo esordio di un'ottima band, a prescindere da tutto quello che potrebbe succedere in seguito.