Chi ha buona memoria, se lo ricorda. C’è stato un tempo, era la seconda metà degli anni ’90, in cui il nome degli Skunk Anansie era sulla bocca di tutti, grazie a tre album strepitosi (Paranoid & Sunburnt, Stoosh e il leggendario Post Orgasmic Chill) e a una miscela ribollente di punk, rock, heavy, funk, blues e reggae, tenuti insieme da un rabbioso approccio politico e femminista.
Poi, lo scioglimento, i lavori solisti, la reunion, il declino commerciale, e un nuovo lungo iato durato la bellezza di nove anni, un tempo abbastanza lungo da ingenerare dubbi su questo nuovo The Painful Truth.
Cosa aspettarsi da una band con trent’anni di carriera alle spalle, i cui dischi migliori risalgono a ben cinque decenni fa? Operazione commerciale? Rimescolamento di vecchie idee privo di creatività? Oppure un album vitale, ispirato e fresco, a cui la lunga pausa ha donato nuova energia e vitalità? Perché, diciamocelo, quel suono vincente, quell’unicum, perchè di unicum si trattava, che aveva fatto scalare alla band le classifiche di mezzo mondo, non è proprio facile da rigenerare, soprattutto se decontestualizzato da un’epoca in cui tutti si abbeveravano alla fonte del crossover.
Riuniti in una fattoria del Devonshire, luogo di riconnessione e di grande speranze, Skin e soci ce l’hanno fatta, hanno rimescolato l'attitudine punk, le melodie rock trascinanti e l'incredibile voce della frontwoman, arrangiando il tutto attraverso il filtro di una visione moderna, fresca ed elettrizzante. Elementi riconoscibili, quindi, ma un suono diversamente agghindato, a cui non manca la stessa urgenza emotiva dei giorni di gloria.
Fin dalle tensione ansiogena dell’opener "An Artist Is An Artist", le scintille volano in un miliardo di direzioni diverse contemporaneamente e il cuore batte a mille per quella che è una lectio magistralis su come costruire una perfetta canzone new wave innervata di punk, senza pasticciare come fanno decine di giovani band celebrate senza motivo dalle riviste che piacciono alla gente che piace. Un brano tanto respingente quanto accattivante, crudo e nevrotico, in cui Skin ringhia con aria di sfida “Non sono rimasta qui per essere la mia eco!”. Una canzone che non solo ti invita a entrare nel nuovo mondo Skunke Anansie, ma che letteralmente sfonda le porte e ghermisce l’ascoltatore spingendolo ad ascoltare senza sosta una scaletta di braniche non fa prigionieri.
Un’elettronica scorbutica accerchia l’incredibile ritornello di "This Is Not Your Life", melodia che rispecchia la genetica di una band che su queste meraviglie ha costruito le vette del proprio successo. Il gruppo è in palla, l’unità d’intenti è un caterpillar che asfalta il cammino per la voce di Skin, incredibilmente suggestiva nonostante eviti il virtuosismo, mettendosi semmai al servizio della musica, come parte del tutto e non solo come apice emotivo.
Non c’è un momento che non conquisti fin dal primo ascolto, si tratti di illanguidire l’anima con "Shame", ballata oscura e dal cuore vulnerabile, o di fondere con visionaria lucidità tensione new wave e alt rock di matrice ‘90 come accade nella travolgente "Cheers", una canzone che in un mondo più giusto congelerebbe nel loop ogni passaggio radiofonico del pianeta terra.
"Shoulda Been You" sfoggia un'atmosfera brixtoniana con la sua inebriante freschezza dub-reggae, roba da Police d’annata, e se in "Feel In Love" esplode la componente funky tanto cara alla band, preparando il tripudio di un ritornello che è un’impresa levarsi dalla testa, "My Greatest Moment", attraverso la sua elettronica roboante, crea un trompe l’oeil dietro quale si cela una delle melodie più contagiose del disco.
Chiude il sipario "Meltdown", ballata superlativa, a riprova del fatto che a Skin bastano solo un pianoforte elettrico e la sua straordinaria voce per spappolare il cuore di chi ascolta. Ancora una volta è la melodia a fare centro, qui con abiti francescani, altrove in un contesto strumentale più ambizioso e strutturato.
Ciò che resta di queste dieci canzoni è la sensazione di una band che ha saputo ritrovare il bandolo della matassa con la capacità che solo i grandi hanno di mantenere fede al proprio credo, aggiornandolo al tempo presente. Skin dice che The Painful Truth è il miglior disco degli Skunk Anansie di sempre, e se non fosse che la nostalgia tiene stretto vicino al cuore Post Orgasmic Chill, mi verrebbe voglia di darle ragione. Un esaltante ritorno.