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REVIEWSLE RECENSIONI
The Price of Admission
Turnpike Troubadours
2025  (Bossier City Records)
IL DISCO DELLA SETTIMANA AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS
8,5/10
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28/07/2025
Turnpike Troubadours
The Price of Admission
Con The Price of Admission, i Turnpike Troubadours firmano il loro disco più personale e coeso, con la maturità e la consapevolezza di chi non ha più nulla da dimostrare.

Dopo aver ascoltato le due ore di trap-country iperprodotto di I’m the Problem di Morgan Wallen, viene spontaneo chiedersi perché, nel 2025, un disco country debba per forza suonare così moderno da sembrare artificiale. Chi ha deciso che un percorso personale come quello di Evan Felker (voce e penna dei Turnpike Troubadours) debba necessariamente tradursi in un album cupo e profondamente introspettivo, sul modello di quello pubblicato dall’ex concorrente di The Voice? Nessuno, ovviamente. Eppure, questo è il clima che si respira nel country contemporaneo (impossibile non pensare alla definizione di Tom Petty: "pessime band rock con il violino"). È proprio per questo che The Price of Admission, sesto album della band e secondo dopo la pausa tra il 2019 e il 2022, colpisce: è un disco che non si preoccupa di stare al passo coi tempi né di voler lasciare il segno. E proprio per questo suona autentico: perché è radicale, onesto e privo di sovrastrutture.

Felker, che ha raccontato la sua parabola di autodistruzione e sobrietà con un candore privo di sentimentalismi (e, cosa rara, privo anche di ironia autoindulgente), è arrivato a questo disco dopo aver scritto (testuale) "per 30 giorni di fila". Niente overthinking, niente grandeur lirica da poeta del Midwest, niente cool lines messe lì per impressionare. Solo un processo – orgogliosamente artigianale – di sedimentazione emotiva. "Ogni volta che un’idea mi colpiva, le andavo appresso", ha detto Felkner a Rolling Stone. E The Price of Admission è esattamente questo: un disco pieno di sensazioni lavorate a caldo, a volte in modo incandescente, altre volte come una brace che resta viva sotto la cenere per giorni.

 

Registrato in sole quattro settimane al Sunset Sound Studio 3 di Los Angeles con la produzione del veterano Shooter Jennings (già con i TT per il recente A Cat in the Rain), l’album si muove con una grazia disarmante tra ballate spirituali, walzer polverosi, anthem da stadio e confidenze al limite dell’inaudito. Ma non è solo la scrittura e nemmeno solo l’interpretazione vocale (anche se Felker, qui, spinge la sua voce in direzioni nuove, tanto da non aver mai cantato meglio prima) a fare la differenza. È la struttura interna dell’album, il modo in cui ogni pezzo suona come un frammento di una storia più grande ma comunque autosufficiente, come un racconto di Raymond Carver messo in musica.

Lo si intuisce già dall’apertura con “On the Red River”, scritta insieme a Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show (che Felker cita tra le sue band preferite di sempre): una meditazione ruvida e al tempo stesso delicata sulla perdita di un genitore. La successiva “Searching for a Light”, firmata con il collaboratore di lunga data John Fullbright, vira invece verso un esistenzialismo da bar (e non in senso deteriore) che trova nella quotidianità una forma di rivelazione sommessa. È un brano in equilibrio tra introspezione e abitudine, in cui il confine tra il sacro e il banale si dissolve in una serie di immagini nitide, familiari e mai forzate. “Leaving Town (Woody Guthrie Festival)”, co-scritta con Dave Simonett dei Trampled by Turtles, chiude la triade delle collaborazioni con la sensazione, palpabile, che la fuga non sia mai davvero un’opzione percorribile – e che perfino il desiderio di andarsene, alla fine, sia una forma di ritorno.

 

Ma è in due dei cinque brani firmati interamente da Felker che il disco raggiunge una specie di apice emotivo e compositivo. “Be Here”, che secondo Shooter Jennings è "la miglior canzone mai scritta sulla riabilitazione", è una marcia funebre in forma di sea shanty, con il coro della band che intona "I really don’t need to be here" come se fosse il canto collettivo di una ciurma di una nave alla deriva. Il brano è fortemente autobiografico, ma si tiene lontano dal facile pietismo. La forza sta nel tono: Felker non chiede comprensione, non cerca una catarsi, si limita a raccontare, con la lucidità di chi ha imparato che la verità non ha bisogno di aggettivi.

L’altro gioiello è “What Was Advertised”, una canzone che riesce a fare due cose contemporaneamente: accettare la realtà senza edulcorarla e prendersi in giro senza sfociare nel cinismo. Felker, con quella voce che suona sempre sul filo tra lo sfinimento e la preghiera, canta: "Did you dig yourself a hole with your lack of self control? / Well if that ain’t rock and roll, I’ve never seen it". È la battuta più amara e più vera del disco. Ed è anche il riassunto perfetto di una fase intera della sua vita e della vita della band.

 

Nonostante il tono apparentemente diaristico di molti brani, The Price of Admission non è un disco chiuso su sé stesso. Anzi, è un disco poroso, aperto, quasi democratico. La scelta di includere due brani non scritti da Felker (“Ruby Ann” di Lance Roark e RC Edwards e “Nothing You Can Do” di Kyle Nix) lo dimostra. Ma ancora di più lo dimostra l’energia collettiva della band: Hank Early alla steel guitar e alla fisarmonica, Ryan Engleman alla chitarra, Gabe Pearson alla batteria e i già citati Nix al violino ed Edwards basso; in un mondo che premia sempre più l’individualismo creativo, i Turnpike suonano come una vera band: cioè come un insieme che vale più della somma delle sue parti. E questo, in fondo, è già una piccola rivoluzione.

E poi c’è la questione del tempismo. The Price of Admission arriva in un momento in cui il Red Dirt Country sta vivendo una strana, inaspettata rinascita. A inizio aprile, i Turnpike sono stati di fatto gli headliner del festival The Boys of Oklahoma, tenutosi al Boone Pickens Stadium di Stillwater, OK, insieme a Cross Canadian Ragweed, Great Divide, Jason Boland and the Stragglers e Stoney LaRue. Oltre 180 mila biglietti venduti, grazie a un pubblico che sembra sempre più interessato a ciò che accade fuori dai confini di Nashville. In questo scenario, i Turnpike non solo si riaffermano come padri fondatori del genere, ma dimostrano anche di saperlo rinnovare senza tradirne l’essenza. Non inseguono le mode, non cercano di sembrare “indie”, non infilano sintetizzatori solo per dimostrare di aver ascoltato i War on Drugs. Fanno i Turnpike Troubadours al cento per cento – e funziona.

Il risultato è The Price of Admission, un disco che si può ascoltare dieci volte e scoprire ogni volta una chiave di lettura diversa. È un album che (come i personaggi dei romanzi di Cormac McCarthy) non pretende di insegnare nulla, ma sembra sapere tutto. E, come i migliori libri o i migliori film, lascia l’ascoltatore con la sensazione di aver sentito qualcosa che non sapeva di dover sentire. E se questo è davvero il prezzo d’ammissione, allora sì, ne vale ogni singolo centesimo.