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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
12/11/2025
Live Report
The Psychedelic Furs, 11/11/2025, Fabrique, Milano
Se c'è un dato su cui risulta praticamente impossibile dissentire, è che il livello delle canzoni degli Psychedelic Furs sia assolutamente stellare. Lo hanno fatto vedere e sentire ampiamente nella loro data al Fabrique di Milano, di cui potete trovare qui l'ottimo racconto.

Sarebbe fin troppo semplice liquidare i Psychedelic Furs come l'ennesimo fenomeno di una nostalgia ormai del tutto imperante in ogni ambito della cultura, musica compresa. La New Wave dei primi Ottanta, che tanto spazio ha avuto anche dalle nostre parti (al punto che ne abbiamo espressa una nostra variante nazionale, vedi il successo di Diaframma e Litfiba, ma anche una pletora di nomi oggi quasi del tutto dimenticati) e che risulta bene o male ancora di moda, basti vedere il numero delle nuove band che si ispirano più o meno indirettamente a queste sonorità.

I Psychedelic Furs, tuttavia, sono un caso parzialmente diverso: nei primi passi della loro carriera si sono ispirati più che altro a Bowie e Roxy Music, hanno espresso una scrittura spesso molto vicina ad un Pop raffinato e melanconico e, particolare da non trascurare, non hanno quasi mai ceduto alle sirene dei facili ritorni. Sette dischi pubblicati con regolarità tra 1980 e 1991, poi lo scioglimento ed un graduale come back solo negli anni Duemila, seppure limitato alla dimensione live.

Nel 2020, con la pandemia ad impedire qualunque attività concertistica, è arrivato Made of Rain, il primo lavoro in studio dopo trent'anni di silenzio: sorprendente per qualità e coesione, dimostrò che  la band londinese aveva ancora parecchio da dire, anche se era evidente che lo avrebbe fatto sempre da una posizione defilata, di chi, nonostante la retromania, arrivava comunque fuori tempo massimo.

 

Il tour, quando hanno finalmente potuto riprendere, è andato benissimo ed è proseguito più o meno ininterrottamente fino ad oggi, quando sono approdati anche da noi. Avrebbero dovuto suonare a Reggio Emilia una decina di anni fa ma era stato annullato per ragioni che ora non ricordo, per cui l'ultima volta che li abbiamo visti risale ancora alla metà degli anni Ottanta, periodo in cui peraltro passavano abbastanza spesso.

Per essere il loro primo live in oltre trent'anni, si può dire che la risposta sia stata nel complesso discreta: il Fabrique è a capienza ridotta ma lo spazio messo a disposizione è bello pieno, con un pubblico decisamente attempato dove i pochi giovani presenti sono figli al seguito dei genitori. È normale, in effetti: in assenza di un qualche fenomeno di riscoperta mainstream tipo Stranger Things (nella cui colonna sonora erano peraltro stati inseriti, anche se mi sa che non se ne sono accorti in molti) rimarranno per forza di cose una band appartenente ad un tempo ormai trascorso.

 

Nell'attesa, ci gustiamo il set dei Dear Boy, da Los Angeles, freschi autori di un sophomore, Celebrator, di cui si è detto un gran bene e che potrebbe in effetti configurarsi come uno dei dischi più interessanti dell'anno in ambito Indie Rock. Ben Grey (voce e chitarra), Keith Cooper (batteria), Austin Hayman (chitarra) e Lucy Lawrence (basso) arrivano per la prima volta in Italia e propongono un mix di sonorità che spaziano dal Jangle al Brit Pop, con ritornelli aperti e sfolgoranti, ed un chitarrismo discreto e sempre molto ispirato. La scaletta, nonostante la brevità, spazia in lungo e in largo anche dai primi EP, mettendo in mostra una scrittura già perfettamente matura anche nelle fasi iniziali (“Limelight” e “Hesitation Waltz” sono davvero due pezzi clamorosi). Peccato solo per la voce a volume un po' troppo basso nell'economia generale, ma per il resto si è trattato di una performance più che convincente.

Speriamo davvero di poterli rivedere ma bisogna essere onesti: a meno che non facciano il botto (i numeri li hanno ma la concorrenza è spietata) sarà praticamente impossibile che trovino le risorse per un tour tutto loro...

 

Mezz'ora di pausa ed ecco finalmente i Psychedelic Furs, che aprono con “Heaven”, a preannunciare una scaletta che sarà comprensibilmente incentrata sui vecchi cavalli di battaglia.

Resa sonora ottima (ma in questo devo dire che il Fabrique non delude mai) e prestazione coinvolgente sin dalle prime battute, con un'energia notevole e tutte le dinamiche al posto giusto, conseguenza di una line up che è stabile da diversi anni e ha trovato l'equilibrio ideale. Della formazione originale rimangono solo i due fratelli Butler, Richard alla voce e Tim al basso, certamente invecchiati ma in forma più che discreta. Richard soprattutto è un ottimo frontman, l'età ne ha un po' indebolito la voce, che a tratti va incontro a qualche cedimento, ma il timbro (da sempre uno degli elementi più affascinanti della proposta del gruppo) è intatto e la prestazione più che convincente, con l'aggiunta di un'accentuata componente teatrale.

Accanto a lui ci sono i chitarristi Roger Morris e Rich Good, la tastierista Amanda Kramer e il batterista Zack Alford: la sezione ritmica spinge a sufficienza, i brani hanno tutto sommato un buon tiro ed il dialogo tra chitarre e tastiera valorizza sia gli episodi più melodici e soffusi, sia quelli maggiormente ruvidi e aggressivi, anche se il mood complessivo del set privilegia la leggerezza, senza caricare troppo sulle distorsioni.

 

Se c'è un dato su cui risulta praticamente impossibile dissentire, è che il livello delle canzoni della band britannica sia assolutamente stellare, con un'infilata memorabile di titoli che, se pure non abbiano mai beneficiato dello status di hit single, possono comunque essere quasi tutti annoverati tra i brani più belli del Pop Rock europeo in senso lato.

Va da sé dunque che ovunque peschino pescheranno bene, e che nonostante l'assenza di cose come “Sister Europe”, “Dumb Waiters” e “Into You Like a Train” (non a caso tutte dal capolavoro Talk Talk Talk, forse anche il loro disco più celebrato), quel che viene suonato è sufficiente per mandare via tutti contenti, nonostante la durata non proprio abbondante (un'ora e venti scarsa).

Le tirate e vagamente dissonanti “President Gas” e “Mr. Jones”, le anthemiche “My Time” e “Love My Way”, una ballata senza tempo come “The Ghost in You”, le oscurità Post Punk di “Pretty Pink”, fino al chorus liberatorio di “Heartbreak Beat”, scandiscono uno spettacolo senza cedimenti o interruzioni (Richard Butler non parla praticamente mai), che è un vero e proprio viaggio nel tempo, all'interno di uno dei capitoli più splendenti della nostra musica preferita.

 

Non ci sono solo classici, comunque, perché qua e là arrivano anche tre pezzi da Made of Rain (“Wrong Train”, “The Boy That Invented Rock & Roll”, “No-One”), che non hanno davvero nulla da invidiare al repertorio più storicizzato; e poi, apprezzatissime, anche la magnifica “In My Head” (per chi scrive una delle loro canzoni più belle in assoluto) e l'ammiccante “Until She Comes”, da quel World Outside che ne esaurì la parabola artistica (almeno fino al ritorno di cinque anni fa) ma che risulta nonostante tutto un bellissimo disco.

Nei bis ecco anche “It Goes On” e, ovviamente, “India”, direttamente dal disco d'esordio e proposta in una versione particolarmente tirata ed impreziosita da un lungo solo di chitarra da parte di Roger Morris.

 

Concerto bellissimo, che ha pagato il giusto tributo alla nostalgia ma che ha anche dimostrato come in realtà, i Psychedelic Furs non risultino neanche troppo fuori posto all'interno del panorama musicale odierno.

Chissà che non arrivi un altro disco, prima o poi: date le loro abituali tempistiche non c'è troppo da sperarci, ma se non altro siamo abbastanza certi che sarebbero in grado di regalarci altro materiale di valore.