The Queen Is Dead (Massimiliano Manocchia)
Il 9 luglio 1982, alle sette del mattino, il trentatreenne Michael Fagan, dopo essersi inerpicato, non visto, lungo i muri di Buckingham Palace, entra nella stanza da letto di Elisabetta II, Regina del Regno Unito di Gran Bretagna e, stando alle cronache di allora, rimane seduto ai piedi del di lei letto per circa dieci minuti prima dell’arrivo della security; beffardo affronto all’ordine costituito e alla Guardia Reale.
L’episodio (cui seguì il più grande scandalo in materia di sicurezza nella storia del Regno Unito) interrò un seme nella fertilissima mente di un solitario ventitreenne di Manchester che rispondeva al nome di Steven Patrick Morrissey, noto in città per il suo carattere spigoloso e la sua smania di notorietà (spediva profusamente lettere e articoli a tutte le riviste musicali e aveva anche tentato, con pessimi risultati, la fortuna come cantante nei Nosebleeds di Billy Duffy, futuro chitarrista dei The Cult).
Quel seme cominciò a germogliare verso la fine del 1985, quando Steven Patrick, assieme ai suoi The Smiths, era già il figlio prediletto dell’indie britannico, e sbocciò pubblicamente in tutta la sua bellissima, sardonica ferocia camp sei mesi dopo; per l’esattezza il 16 giugno 1986:
So I broke into the Palace
with a sponge and a rusty spanner
She said: “Eh, I know you, and you cannot sing”
I said: “That’s nothing – you should hear me play piano”
In quattro versi, il non-più-e-mai-più Steven Patrick ma solo Morrissey, si dipinge novello Fagan e delinea una scena surreale e farsesca di rara efficacia eversiva (e autoironica) in cui la minaccia alla corona non è rappresentata dalla “chiave arrugginita” e dalla “spugna”, bensì dalla proposta indecente fatta a Sua Maestà, nei versi susseguenti, di uscire a fare “una passeggiata dove c’è un po’ di tranquillità” per “parlare di cose preziose, come l’amore, la legge e la povertà”, perché sono queste le cose che (lo) uccidono; oltre, wildianamente, alla pioggia che gli appiattisce i capelli. Il vero regicidio è costringere la Sovrana a prendere coscienza della drammatica realtà quotidiana che i suoi sudditi sono costretti a vivere; la monarchia non ha più ragione di essere poiché è menefreghista e parassita: chiedere alla Regina - istituzione anacronistica, puramente formale e dunque vuota, avulsa dalla realtà – di dare risposte alle istanze sociali del Paese significa destituirla. O ucciderla. Sì, la Regina è morta.
È questa l’ossatura cardinale del brano, che tuttavia, com’è tipico di Morrissey, prende forma di monologo erratico a mezzo tra la narrazione e la riflessione personale. Il contrasto prodotto dalla giustapposizione di “Take Me Back To Dear Old Blightly” – canzonetta popolare ai tempi della Prima Guerra Mondiale, il cui incipit è qui campionato nella versione cantata da Cicely Courtneidge nel film del 1962 The L-Shaped Room – con i primi versi del testo vero e proprio (“Farewell to this land’s cheerless marches / hemmed in like a boar between arches”) non è agevole da cogliere per chi non possiede sangue britannico, così come la suggestiva allusione al travestitismo del principe Carlo potrebbe risultare più volgare di quanto non sia in realtà:
I say Charles, don’t you ever crave
To appear on the front of the Daily Mail
Dressed in your Mother’s bridal veil?
Morrissey sputa fiele da subito, coadiuvato dal tonitruante tambureggiare del loop ritmico di Mike Joyce e dal clamoroso feedback generato dalla chitarra di Johnny Marr, che perdura come un lancinante bordone per tutto il pezzo; di assoluto rilievo le linee di basso “killer” (dal Vangelo secondo Marr; e chi siamo noi per dissentire?) create da Andy Rourke. Con “The Queen Is Dead” il bagaglio sonoro degli Smiths si arricchisce d’inedita aggressività, ancorché controllata, disciplinata e, per ciò, ancora più penetrante; sarà lo stesso Marr a confidare che il riff nacque mentre cercava un suono alla MC5 sugli accordi di “I Can’t Stand It” dei Velvet Underground (ascoltare, per credere, la coda strumentale).
Rispetto all’altro celeberrimo attacco sferrato alla Casa Reale, di quasi un decennio precedente (non c’è bisogno di citarlo, vero?), quello condotto da Moz e sodali è indubbiamente più arguto e brillante, financo più efficace, soprattutto nel tratteggiare il declino d’Albione, ridotta ormai a “carcassa dissacrata dell’Impero che offre ai propri sudditi il solo sollievo del bere” (S. Goddard), mentre la Chiesa (tema che sarà poi ripreso e approfondito in “Vicar In A Tutu”) si è trasformata in una consorteria di ladrocini autorizzati (o non condannati) da “Sua Bassezza Reale”.
Ma, come suol dirsi, c’è un ma. Si ha la sensazione (non dimentichiamoci che si tratta di Morrissey…) che non sia tutto così lineare e semplice, che la canzone non sia un mero attacco a Casa Windsor, che non sia tutto qui. Che ci sia dell’altro. E questa sensazione, dapprima ipotetica, si fa certezza – o almeno così fu per il sottoscritto - col verso conclusivo:
Life is very long, when you’re lonely
La faccio breve: come in buona parte del repertorio degli Smiths e del Morrissey solista, c’è un sottotesto. “The Queen Is Dead” è – anche - il titolo del secondo capitolo dello straordinario romanzo di Hubert Selby Jr. Last Exit To Brooklyn, brutale affresco iperrealista di emarginazione ultima popolato da teppisti, tossici, puttane, travestiti e omosessuali; o meglio “queen”, termine utilizzato tra i gay di sesso maschile per appellarsi l’un l’altro a seconda degli interessi e delle inclinazioni, la più nota delle quali, “drag queen”, fa riferimento al travestitismo. Difficile (soprattutto alla luce degli anzidetti versi allusivi sulle fantasie di travestitismo del Principe Carlo) pensare che l’allaccio sottinteso al romanzo di Selby Jr. sia una mera coincidenza.
Da qui potrebbe dipartirsi un tema – quello dell’identità sessuale di Morrissey – che prenderebbe pagine su pagine solamente per riannodare rimandi e riferimenti simbolici sparsi nel suo canzoniere; ci accontentiamo di suggerire ai più attenti e curiosi questa ulteriore chiave di lettura, non meno affascinante che suggestiva.
Frankly Mr. Shankly (Luca Franceschini)
Nel 1986 Bill Shankly, leggendario allenatore del Liverpool dal 1959 al 1974, era morto da cinque anni ed era già uno degli sportivi più celebri di tutto il Regno Unito. “Quando morirò voglio essere il più in forma di tutto il cimitero” amava dire per giustificare la sua ossessione per la forma fisica, conservata anche in tarda età. Era solo una delle tante dimostrazioni di un temperamento ironico e irriverente, che uno come Morrissey apprezzava di sicuro.
Non parla certo di lui, questo rock scanzonato e saltellante, che arriva subito dopo la profonda solennità della title track. Ma è difficile, molto difficile, che a quell’epoca qualcuno potesse pensare quel nome e associarlo a una persona diversa.
“Frankly Mr. Shankly” non è una delle cose per cui gli Smiths saranno ricordati in eterno ma anche qui, come per un altro paio di brani di questo disco, il livello medio rimane alto, testimonianza di una band che aveva ormai raggiunto il proprio stato di grazia.
Francamente, sig. Shankly,
Il posto che occupo mi dà da vivere ma corrode la mia anima
Voglio andarmene, non sentirà la mia mancanza
Voglio entrare nella storia della musica.
Chi avesse visto “England is Mine”, il recente biopic di Mark Gill sulla vita del giovane Morrissey, non farà fatica a ritrovare in questa canzone il rapporto conflittuale tra Steven e il suo capufficio all’Agenzia delle Entrate, un lavoro che si era appunto deciso ad accettare solo per sopravvivere in attesa di più vasti traguardi. Ma c'è una scena simile anche in “Billy il bugiardo”, il film del 1963 che, assieme al romanzo di Keith Waterhouse da cui è tratto, costituisce uno dei riferimenti più importanti del cantante.
In realtà, chi volle vedere in questo brano un riferimento più o meno esplicito a se stesso fu Geoff Travis, il proprietario della Rough Trade, presso la quale i mancuniani erano accasati sin dall’inizio della loro carriera.
Oh, non sapevo che lei scrivesse poesie
Non sapevo che scrivesse poesie così maledettamente schifose, sig. Shankly
Travis, in effetti, aveva quest’hobby e pare che più di una volta avesse sottoposto a Morrissey il risultato dei suoi sforzi creativi, nella speranza di ricevere un incoraggiamento.
Il rapporto con l'etichetta, comunque, fu sempre parecchio travagliato: il cantante lamentava che non facesse abbastanza per promuovere i loro singoli e li riteneva quindi responsabili di alcuni dei più grossi flop dei loro 45 giri. Dall’altra parte, Travis e i suoi collaboratori pensavano che gli Smiths non fossero poi troppo oculati nella scelta dei brani da lanciare.
Una storia complicata, peggiorata nel momento in cui Joe Moss, manager del gruppo sin dagli esordi, si decise ad abbandonare la nave, lasciando così la coppia delle meraviglie Morrissey/Marr a gestire da sola le sempre più evidenti incompatibilità caratteriali.
Fama, fama, fama fatale
Può giocare brutti scherzi al cervello
Ma preferirei essere famoso
Che virtuoso o santo, in ogni caso
C'è molta finzione letteraria in questi versi: nel 1986 Morrissey di fama ne aveva fin troppa e si era senza dubbio già reso conto che c'era un prezzo piuttosto alto da pagare per rimanere a quelle altezze. Geoff Travis, da parte sua, non se la prese più di tanto: “A Morrissey piace divertirsi un po' e questo è molto rock and roll.” ebbe a dichiarare in seguito. Probabilmente l’orgoglio di essere finito in un pezzo degli Smiths era tale da far passare in secondo piano tutto il resto.
I Know It’s Over (Jacopo Bozzer)
Dopo il divertissement – ma lo si può davvero considerare tale? – di “Frankly, Mr. Shankly”, The Queen Is Dead cala prepotentemente uno dei suoi assi: “I Know It’s Over”, una delle più malinconiche e disperate canzoni degli Smiths. Le trame chitarristiche di Johnny Marr, al tempo stesso scheletriche e densissime, sono al completo servizio della canzone, che ha nella ripetizione ossessiva della frase iniziale «Oh Mother, I can feel the soil falling over my head» il momento emotivamente più potente. Sentire Morrissey – perché è difficile non considerare come autobiografiche le parole del testo –, un giovane uomo di ventisette anni, invocare la propria madre con tale disperazione dopo che una storia d’amore importante è finita, be’, stringe il cuore.
Come ha giustamente sottolineato Simon Reynolds su Pitchfork, nel testo di “I Know It’s Over” Morrissey compie un vero e proprio capolavoro perché riesce a trasformare il tormento in splendore. L’immagine iniziale del letto vuoto visto come una tomba, poi, è magistrale. Durante i quasi sei minuti della canzone, Morrissey riesce a toccare ogni gamma dello spettro emotivo che la fine di una relazione provoca in ognuno: c’è l’autocommiserazione («It’s so easy to hate/It takes strength to be gentle and kind»), il ricordo di una frase velenosa detta dal partner («If you’re so funny/Then why are you on your own tonight?») e il pensiero suicida alla Byron («The sea wants to take me/The knife wants to slit me»).
Nella sua versione in studio, “I Know It’s Over” parte in sordina e piano piano, una volta che gli strumenti trovano il loro spazio – prima la chitarra di Marr, poi il basso di Andy O’Rourke e la batteria di Mike Joyce e infine un quasi impercettibile arrangiamento d’archi – si apre definitivamente. Ma è dal vivo che riesce a sprigionare del tutto la sua potenza, come testimonia il terzo disco della recente deluxe edition di The Queen Is Dead, nel quale si trova un intero concerto registrato a Boston il 5 agosto 1986. Lì, la canzone trova la sua vera natura di ballata Rock disperata a tinte Jazz, un tour de force strumentale ed emotivo alla faccia di chi ha sempre pensato – a torto, magari dopo aver ascoltato il deludente live Rank – che gli Smiths non fossero abbastanza Rock ‘n’ Roll.
Never Had No One Ever (Massimiliano Manocchia)
“I had a really bad dream / It lasted 20 years, 7 months and 27 days”
Un arco temporale di precisione chirurgica: un brutto sogno durato vent’anni, sette mesi e ventisette giorni; con altrettale puntiglio, Johnny Rogan, “infamous” biografo e studioso non autorizzato di Morrissey, e per ciò fatto oggetto da parte del cantante di anatemi e fatwa, calcola che, essendo Morrissey nato il 22 maggio del 1959, il giorno esatto preso in considerazione nei versi è il 18 gennaio 1980. Tuttavia Rogan, scandagliando (non si sa come) pagine di diari e appunti dell’artista, afferma che quel giorno nulla di particolarmente rilevante accadde: Morrissey passò la giornata nella sua camera a leggere The Murderers’ Who’s Who e a lamentarsi di un piede dolorante; quella sera nemmeno uscì.
Probabile che il puntigliosissimo riferimento temporale fosse tanto simbolico quanto foneticamente utile alla cadenza in 6/8 di questo canto funebre e inquietante che, nella seconda strofa, assume toni quasi sinistri. La composizione, firmata da Marr, risale a una jam strumentale nata durante le sessioni di Meat Is Murder e il chitarrista affermò di aver tratto ispirazione dalla chitarra di James Williamson in “I Need Somebody” (sull’album Raw Power di Iggy And The Stooges).
Presa a sé, “Never Had No One Ever” è forse uno dei brani più deboli del canzoniere, ma come coda di “I Know It’s Over”, nella sua elegiaca poetica di frustrazione e devastazione interiore, funziona a meraviglia È lo stesso Morrissey, intervistato da Melody Maker nel settembre del 1986, a fornire una lettura della prima strofa: “Parla della frustrazione che sentivo a vent’anni quando non mi sentivo a mio agio a camminare per le strade della città in cui ero nato, dove la mia famiglia aveva sempre vissuto – sono originari dell’Irlanda ma vivono qui sin dagli anni Cinquanta. Il fatto che io non avessi mai pensato ‘Questa è la mia casa. Conosco questa gente. Posso fare quello che mi piace, perché questo è mio’ era una costante fonte di frustrazione.”
Morrissey non si è mai sentito a casa a Manchester e poco importa se sia vero o se sia soltanto un vezzo snobistico per sottolineare il provincialismo della citta: in entrambi i casi, il disagio è comunque reale.
Nelle primissime versioni, le uniche parole cantate da Morrissey sono quelle che inaugurano la seconda strofa: “Now I’m outside your house / I’m alone” e che spostano improvvisamente l’asse del significato in modo quasi straniante; inquieta questo personaggio tutto solo, fermo davanti a casa di qualcuno, quando arriva a confessare “I’d hate to intrude…”; inquieta e al contempo suscita quasi un moto di compassione, dolce minaccia di minacciosa dolcezza tipicamente morrisseyana.
Cemetry Gates (Luca Franceschini)
“Un temuto giorno di sole, così ci incontriamo ai cancelli del cimitero. Keats e Yeats sono al tuo fianco, mentre Wilde è al mio”. Una delle più celebri canzoni del gruppo, nonché tra gli episodi migliori di The Queen is Dead si gioca tutta sul contrasto tra la solarità della melodia (si sentono qua e là echi dei Kinks) e l’ambientazione sepolcrale della vicenda. Un abbinamento che potrebbe non essere stato casuale: se dobbiamo credere a Johnny Marr, il giro di accordi e i fraseggi chitarristici sono stati concepiti quasi a tavolino, sull’onda dell’entusiasmo per alcune recensioni che definivano i due come la miglior coppia di autori di canzoni di tutti i tempi. La sfida era vedere se sarebbero riusciti a comporre una hit in modo quasi istantaneo e l'hanno vinta alla grande, visto che questo brano tiene la tensione dall’inizio alla fine e ha una linea vocale che si stampa indelebilmente in testa già dal primo ascolto.
C'è tanta roba, qui dentro: innanzitutto la dipendenza da eroina di Andy Rourke, che registra il brano dopo due settimane insonni e ciononostante tira fuori una prestazione maiuscola. Poi il testo, che prende le mosse dalle lunghe chiacchierate che Morrissey e Linder Sterling facevano al Southern Cemetery di Manchester, ma che sviluppa poi una riflessione ironica e vagamente piccata su plagio e utilizzo della citazione in letteratura.
“Se scrivi prosa o poesia, le parole che usi dovrebbero essere le tue”, canta Moz ad un certo punto. Ed è appunto ironico perché uno come lui ha sempre saccheggiato a piene mani il repertorio dei suoi autori preferiti, sia in campo letterario che cinematografico. Ma è proprio questo il punto: la citazione dichiarata, l’omaggio, il verso di qualcun altro incastonato in mezzo ai propri, non sono operazioni di cui vergognarsi. Lo ha fatto T.S. Eliot (la “Waste Land” è tutto un grande collage di citazioni), perché non dovrebbe farlo lui?
Ma c'è anche altro, in questo brano: perché è un pezzo Pop che usa accordi aperti, che trasmette energia e fa venire voglia di ballare. Ma allo stesso tempo riflette sulla morte e sulla caducità della vita: “Tutte queste persone, tutte queste vite, dove sono adesso? Coi loro amori, i loro odi e le passioni tali e quali alle mie. Hanno vissuto e sono morti. Mi sembra così ingiusto e vorrei piangere”. C'è una scena molto simile, nell’ultimo atto dell’Amleto, a dimostrazione di come il gioco dei rimandi in questa canzone sia molto più complesso di quanto sembri. La musica è una cosa seria. Dobbiamo essere grati agli Smiths, che hanno saputo marchiare a fuoco questa verità attraverso tutti quei brani che hanno cambiato le nostre vite.
Bigmouth Strikes Again (Jacopo Bozzer)
Primo vero singolo dell’album – poiché “The Boy With The Thorn In His Side” uscì nel settembre del 1985, quando i lavori per The Queen Is Dead dovevano ufficialmente ancora iniziare – in “Bigmouth Strikes Again” Johnny Marr lascia andare a briglie sciolte la sua sei corde, creando una densa ragnatela di chitarre elettriche e acustiche, dando vita non a un inno alla malinconia, come ci si potrebbe aspettare, bensì a un pungente attacco al sistema della critica musicale.
Qui Morrissey invece che parlare d’amore, timidezza e difficoltà nel trovare un partner, come aveva fatto per esempio in “How Soon Is Now?”, si mette al centro della canzone. Si erge a vero e proprio protagonista, scagliandosi con tutta la sua tracotanza lirica contro chi fa dello scrivere di musica il proprio mestiere e che, ignorante e superficiale, non capisce – o non vuole capire, che è peggio – né lui né il suo gruppo. Per rendere ancora più d’impatto il tutto, Morrissey si paragona nientemeno che a Giovanna d’Arco – mossa geniale, va detto, perché scegliendo una figura femminile può continuare a giocare con la sua identità sessuale –, dicendo, ne più ne meno: «Now I know what Joan of Arc felt». Ma il testo contiene almeno altre due messaggi: il primo è una richiesta di Morrissey a essere preso per quello che è, malumori e inquietudini d’artista compresi; il secondo è una vera e propria chiamata alle armi rivolta ai fan del gruppo all’insegna del “Noi contro Loro”, facendo di “Bigmouth Strikes Again” una specie di “Smells Like Teen Spirit” ante literam.
Anche se non sembra, le background vocals sono a opera dello stesso Morrissey, il quale, volendo sperimentare con gli effetti, ha alterato e distorto la propria voce fino a farle raggiungere tonalità inaudite. Pertanto, la Ann Coates segnalata nei credits non è altro che un divertente gioco di parole basato su Ancoats, un distretto di Manchester.
Curiosità: uscita come singolo il 22 maggio 1986, “Bigmout Strikes Again” aveva come b-side “Money Changes Everything”, un raro strumentale (raro perché all’epoca fu escluso dalla versione in vinile della raccolta The World Won’t Listen) composto da Johnny Marr per il quale in un secondo momento Bryan Ferry scriverà il testo. Intitolata “The Right Stuff”, la canzone sarà inclusa in Bête Noire, album solista dell’ex Roxy Music uscito nel 1987.
The Boy With The Thorn In His Side (Massimiliano Manocchia)
“Pensano che io sia totalmente finto – ma allo stesso tempo sarei un mostro malato di sesso,” dichiara Morrissey, poche settimane dopo l’uscita di “The Boy With The Thorn In His Side” in un’intervista rilasciata all’attrice Margi Clarke per la trasmissione The Tube di Channel 4. “Credo che la missione della maggior parte dei giornalisti sia smascherarmi”.
Non c’è solo egocentrismo in questa dichiarazione (e un pizzico di paranoia): c’è molta verità. Nel 1985, in terra britannica, gli Smiths erano probabilmente il gruppo più “esposto” e chiacchierato e ciò era dovuto anche (e soprattutto) alle posizioni intransigenti e ambigue del cantante, alfiere di una “diversità” che rifuggiva da qualsivoglia paradigma in tema di sessualità, relazioni sociali e stili di vita (chi mai, fino ad allora – o anche dopo di allora, se è per questo – aveva cantato l’apologia del celibato?).
Uscito come singolo nel settembre del 1985 (in versione leggermente diversa da quella che poi comparirà su The Queen Is Dead), “The Boy With The Thorn In His Side”, a dispetto del primo videclip “ufficiale” realizzato dalla band, fu un’altra cocente delusione sotto il profilo commerciale; toccherà la posizione numero 23, prima d’inabissarsi definitivamente.
Certo, rispetto alla quarantanovesima posizione del precedente “That Joke Isn’t Funny Anymore” rilasciato due mesi prima (secondo e ultimo singolo tratto da Meat Is Murder) poteva quasi considerarsi un successo, ma le aspettative dei quattro mancuniani erano elevatissime e il mezzo passo falso li convinse a includere il brano, pensato inizialmente solo come singolo, nella tracklist definitiva di The Queen Is Dead.
La genesi di “The Boy With The Thorn In His Side” segue quella, ormai rodata, di quasi tutte le altre composizioni del gruppo: l’idea iniziale è di Marr, concepita sul tour bus che li conduceva di città in città durante la tournée promozionale di Meat Is Murder, e fu provata e rifinita durante i soundcheck per poi essere registrata in forma di demo nell’agosto del 1985 ai Drone Studios di Manchester. Venne fuori talmente bene che Stephen Street decise portarla con sé ai Rak Studios di Londra per farne un missaggio; è questo missaggio che si ascolta nella versione a 7”.
Seducentemente pop e maliziosamente leggera (grazie anche a un groove chitarristico che Marr non ha mai nascosto di aver preso in prestito dagli Chic di Nile Rodgers: “Non c’era altro modo di suonare questo brano,” dirà), la canzone esprime metaforicamente (la “spina nel fianco”) la condizione del gruppo nei suoi rapporti con la stampa e con l’industria musicale.
Il ragazzo con la spina nel fianco
Dietro il rancore nasconde
Un atroce desiderio d’amore
Come possono guardarmi negli occhi
E continuare a non credermi?
Come possono sentirmi dire quelle parole
E continuare a non credermi?
E se non mi credono adesso
Mi crederanno mai?
Cosa possiamo fare di più per far sì che ci crediate?, sembra implorare Morrissey. Il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale, nella seconda strofa, evidenzia con forza questa interpretazione, eppure, come in tutti i testi degli Smiths, esiste un ulteriore livello di lettura, dal quale il cantante pare quasi voler giustificare il proprio “odio” attribuendone le cause a un desiderio d’amore che non trova realizzazione e risolvendo sardonicamente, nel finale, con una richiesta d’aiuto cinicamente retorica:
E quando vuoi vivere,
come cominci?
Dove vai?
Chi hai bisogno di conoscere?
Malgrado lo scarso successo ottenuto all’epoca della pubblicazione, “The Boy With The Thorn In His Side” rimane una delle più belle, affascinanti e compiute canzoni degli Smiths.
Vicar In A Tutu (Luca Franceschini)
Magari non tutti saranno d'accordo ma ho sempre pensato che gli Smiths, il disco capolavoro non l'abbiano mai inciso. Sono sempre stati una band da singoli: i loro pezzi migliori li hanno quasi sempre riservati a quel formato e le tracklist dei loro album non sono mai riuscite del tutto ad evitare qualche caduta di tono. Paradossalmente, forse, solo l’ultimo, postumo, Strangeways, Here We Come, proprio per l’assenza di episodi immediati e dall’appeal radiofonico, mostra un’omogeneità e una chiarezza di intenti che avrebbero potuto essere meglio definite se solo la loro storia fosse continuata.
Tutto questo per mettere le mani avanti: se The Queen Is Dead può essere senza problemi considerato il loro lavoro migliore, è altrettanto vero che non rimane immune dai filler, seppure di alta qualità. “Vicar in a Tutu” è un vivace rockabilly che ruota attorno ad un’idea melodica tutto sommato banale, anche se lo stato di grazia di Johnny Marr in quel periodo evita quell’abbassamento di toni che si era verificato l’anno precedente, quando la band aveva giocato la stessa carta in “Shakespeare’s Sister” (per inciso, uno dei loro singoli più deboli).
Qui siamo al cospetto di un episodio lontano dalla sontuosa perfezione e magniloquenza di altre tracce dell’album, ma alla fine è una canzone che funziona molto bene se fruita nel suo contesto.
“Stavo pensando agli affari miei prendendo un po' di piombo dal tetto della chiesa del Sacro Nome. Ne è valsa la pena di vivere una vita ridicola, solo per posare lo sguardo sulla sconvolgente visione di un parroco in tutù. Non è un eccentrico. Vuole solo vivere la sua vita in questo modo”. Si apre con questa scena surreale di un parroco in tutù che celebra tranquillamente la funzione; quadro scombinato ancora di più dal fatto che nessuno dei fedeli mostra di essere turbato: ai loro occhi, la scena è assolutamente normale e tutto si svolge come al solito, dalla raccolta delle offerte, al sermone che condanna “ignoranza, polvere e malattia”.
Che senso ha tutto questo? Morrissey è sempre stato ostile a qualunque tipo di autorità e la sua ironia tagliente è stata spesso e volentieri diretta contro le istituzioni (pensiamo ad esempio a “The Headmaster Ritual”). Eppure, questa volta prendere di mira la religione organizzata non gli interessa. Figlio di immigrati irlandesi, ha chiuso ogni rapporto col cristianesimo molto presto, a seguito della morte di uno zio a cui era molto legato. Da quel momento, lui e Dio sono rimasti dei perfetti estranei. Ma al di là di questo, qui la questione è un’altra: si tratta del voler “vivere la sua vita in questo modo”, che è poi la cifra fondamentale dell’opera di Morrissey. Si può essere davvero liberi da ogni condizionamento, affermare se stessi in tutta la propria irriducibilità, fregandosene delle convenzioni sociali? L'ha fatto Oscar Wilde (che pure ha pagato un prezzo altissimo, nonostante ci abbia anche messo molto del suo), lo stava facendo il giovane cantante in quel periodo, dalla sessualità (su cui per altro non si esprimerà mai in modo esplicito) alla scelta del veganesimo, allora assolutamente impopolare. Il parroco in tutù di questa canzone, dunque, può essere visto come una sorta di buffo alter ego dell’autore. E l’atmosfera surreale e vagamente onirica di cui il testo è ammantato, unitamente al divertente contorno narrativo del ladruncolo, la rendono una piccola gemma minore nel vasto catalogo dei mancuniani. Non finirà mai in nessun compendio ma è comunque bello che sia stata scritta.
There Is A Light That Never Goes Out (Nicola Chinellato)
C’è una luce che non si spegne mai. Il titolo della nona traccia di The Queen Is Dead sembra veicolare un messaggio positivo, di speranza. La luce è l’amore, nel senso più ampio del termine: una luce in fondo al tunnel che è il traguardo del nostro percorso esistenziale, che traccia la strada, che è al contempo romito e salvezza. Un amore idealizzato, privo di fisicità, che si smarca dal manicheismo sessuale uomo/donna, che si nutre della purezza dei sentimenti e che è tendenza all’assoluto.
In realtà, la canzone è permeata da profonda tristezza, da un desiderio inappagato, dall’idea che nel mondo degli stereotipi e delle convenzioni non ci sia posto per quelli come Morrissey. Se, infatti, l’amore è la luce a cui tutti tendono, per alcuni questo obiettivo è destinato a rimanere una chimera. In questi versi, c’è l’idea che Morrissey ha di se stesso e della gioventù a cui il suo lamento si rivolge: giovani alienati, che sopravvivono a stento alla dura legge della metropoli, agnelli in un mondo di lupi, crogiuoli di insoddisfazione, di struggimenti e di sogni destinati a rimanere tali, vittime di una realtà che stritola tutti coloro che non si allineano al pensiero unico. Un male di vivere che si acuisce proprio quando si ama, se il destinatario del proprio amore non è (uomo o donna) quello convenzionalmente accettato dal consesso civile.
“There Is A Light That Never Goes Out” enfatizza, con toni melodrammatici e un certo voyerismo fotoromanzesco, alcuni dei temi cari a Morrissey, che ritornano ciclicamente in quasi tutte le canzoni del disco. Il tema dell’omosessualità, in primo luogo, che porta però con sé, da un lato, la consapevolezza dell’infelicità (già ribadita in “I Know It’s Over”: “Love Is Natural And Real, but not for such as you and I, my love”) e della ghettizzazione della relazione (non a caso il brano si apre coi versi “Take me out tonight, where’s there’s music and there’s people”, che suona quasi come una richiesta di normalizzazione), dall’altro, invece, l’orgoglio di un amore che non teme nemmeno (e forse addirittura auspica) la morte (“And If a double decker bus crashes into us, to die by your side is such an heavenly way to die”).
Tuttavia, se è pur vero che Morrissey si dichiara disposto a morire a fianco dell’amante, è altrettanto vero che il destino della relazione amorosa è quello di essere osteggiata e messa all’indice, tanto che la condizione inevitabile del giovane Moz è, in definitiva, la solitudine. Lo dice chiaramente, infatti, la title track, attraverso la chiosa dolente “Life is very long when you’re lonely”, concetto, poi, suggerito nel “brutto sogno” di Never Had No One Ever, e qui ribadito, in modo quasi disperato, nella supplica: “Oh please, don’t drop me home, because it’s not my home, is their home, and I’m welcome no more”.
Non sono però solo i gusti sessuali omologati a causare il disagio: la solitudine, l’incapacità di inserirsi ed essere accettato dalla società, è la condizione a cui sono destinati tutti gli ascoltatori degli Smiths, quei giovani, cioè, che rifiutando le logiche consumistiche e la standardizzazione dei sentimenti, coltivano la propria rabbia e le proprie frustrazioni nel buio di una cameretta, ove l’unica luce è rappresentata, oltre che dall’amore, dalla musica e dai libri.
A dispetto dei temi alti, la canzone, che contiene una linea armonica di un brano (“Hitch Hike”) di Marvin Gaye, rifatto dagli Stones e, a detta di Marr, poi “rubato” anche dai Velvet Underground, è musicalmente, forse la più debole traccia del disco, che riesce comunque a trovare un punto di forza nel cantato salmodiante di Morrissey quando, come spesso avviene (“I Know It’s Over” per tutte), reitera come un mantra il titolo della canzone, creando un pathos carico di rassegnata disperazione.
Some Girls Are Bigger Than Others (Nicola Chinellato)
L’effetto straniante delle dissolvenze di volume, voluto dal produttore Stephen Street, introduce “Some Girls Are Bigger Than Others”, ultima canzone di un disco pressoché perfetto. Street gioca con l’ascoltatore, le note della chitarra di Marr sembrano arrivare da dietro una porta chiusa, che viene aperta solo un poco e quindi nuovamente accostata, come se l’ascoltatore si fosse accorto improvvisamente di aver sbagliato stanza. Infine, irrimediabilmente attratto dalla musica, la spalanca completamente, e il suono diventa potente, nitido, avvolgente. Un piccolo tranello che disorienta, che spiazza e che introduce a uno dei testi più elusivi e complessi della poetica di Morrissey, un testo sarcastico e paradossale, che dietro l’apparente non sense nasconde, invece, una serie di citazioni, ammiccamenti e riflessioni decisive.
Ritorna, in primo luogo, la critica politica, uno dei temi principali delle liriche di The Queen Is Dead, individuata qui in quell’incipit che parla esplicitamente di “era della disoccupazione” (“From The Ice-Age To The Dole-Age There Is But One Concern”) e che rappresenta l’ennesimo, questa volta fugace, attacco alle politiche thatcheriane (per la cronaca, il disco originariamente si sarebbe dovuto chiamare Margaret On The Guillotine). Nuovamente, poi, Morrissey (una costante dei suoi testi) sfoggia il proprio vivace retroterra culturale, abbandonandosi a quel citazionismo, che non è semplice vezzo, ma semmai una sorta di invito all’ascoltatore a concentrarsi sul linguaggio, a risolvere l’enigma, a cercare risposte (il verso “Send Me The Pillow/ The One That You Dream On”, ad esempio, è preso da “Send Me The Pillow You Dream On”, brano del 1962 a firma Johnny Tillotson, cantante americano vincitore di due Grammy Award, mentre il verso “As Antony Say To Cleopatra As He Opened A Crate Of Ale”, è ispirato al film storico del 1964 Carry On Cleo di Gerald Thomas). E poi, soprattutto, si ripresenta il tema della consapevolezza sessuale, intesa, però, come superamento delle convenzioni derivanti dalla società, e qui raccontata attraverso la reiterazione del verso che dà il titolo al brano, “Some Girls Are Bigger Than Others”. Un frase all’apparenza priva di significato e che, invece, nel contesto della canzone, non solo suona come l’esplicita (e orgogliosa) affermazione della propria omosessualità (l’indifferenza verso il corpo femminile, il corpo stereotipato, cioè, di quelle “belle ragazze che scavano fosse”), ma anche un’esortazione a ripulirsi dal manicheismo sessuale e ad affrancarsi dal pensiero omologato che intende la donne solo come oggetti di carne, indistinguibili fra loro se non per la grandezza delle forme.
Se buona parte di The Queen Is Dead è attraversata da una profonda tristezza, da un bisogno perentorio d’amore, destinato, però, a essere inappagato, da un dilacerante senso di non appartenenza al tessuto sociale, in “Some Girls Are Bigger Than Others” (al pari di ciò che avviene nel velenoso anticlericalismo di “Vicar In Tutu” e nel sarcasmo astioso di “Frankly Mr. Shankly”) Morrissey sceglie la strada dell’ironia, trasformando i suoi struggimenti leopardiani e quel senso di soccombenza innanzi al “natio borgo selvaggio” in un motteggio di beffardo distacco, incastonato fra i riff byrdsiani e stratificati della chitarra di Johnny Marr, qui, alle prese con una traccia armonica uncinante ed efficacissima.