Nel 2016, quando si sono incontrate, Julien Baker, Phoebe Bridgers e Lucy Dacus erano poco più che esordienti. La storia è nota: Dacus e Baker si sono conosciute dietro le quinte di un concerto comune; Baker ha incrociato Bridgers di lì a un mese. Due anni dopo, quando hanno scoperto che avrebbero suonato una serie di date insieme, le tre sono entrate ai Sound City Studios, hanno deciso di chiamarsi Boygenius e in quattro giorni hanno inciso un EP di sei pezzi, pubblicato dall’etichetta indipendente Matador.
Fast forward di cinque anni. Annunciato con grande clamore, esce The Record, primo lavoro sulla lunga distanza. Questa volta le ospita una major, la Interscope, e l’aspettativa è ben più alta rispetto al 2018. Il motivo è presto detto: nel giro di un lustro, il profilo delle tre Boygenius è cresciuto esponenzialmente. Julien Baker ha espanso i propri orizzonti sonori con Little Oblivions, Lucy Dacus ha trovato in Home Video il suo disco migliore e Phoebe Bridgers si è affermata come una delle voci più distintive della sue generazione grazie a Punisher.
Titolari di tre carriere ormai ben avviate, nel corso degli anni Baker, Bridgers e Dacus hanno sporadicamente collaborato. Sono apparse in Petals for Armor di Hayley Williams («sono come le Avengers», ha detto di loro la cantante dei Paramore) e si sono ospitate a vicenda nei rispettivi dischi, ma è solo dopo che Bridgers ha pubblicato il best seller Punisher che le tre hanno deciso che era giunto il momento di tornare a essere le Boygenus.
Questa volta, però, Baker, Bridgers e Dacus si sono prese il loro tempo. Per due anni si sono scambiate demo dei pezzi, poi nel gennaio 2022 hanno prenotato per un mese intero il prestigioso Shangri-La Studio di Rick Rubin a Malibu e hanno coinvolto nelle registrazioni alcune tra le migliori musiciste sulla piazza, come la bassista Melina Duterte e la batterista Carla Azar. A produrre il tutto hanno chiamato invece Catherine Marks, già al lavoro con Foals, Manchester Orchestra e Wolf Alice. Un cast tutto al femminile, al quale si sono aggiunte successivamente la scrittrice Elif Batuman, che ha scritto il saggio introduttivo all’album, e l’attrice Kristen Stewart, che ha diretto The Film, il corto che mette assieme i tre singoli che hanno anticipato il disco.
Ascoltando l’album, è innegabile che Baker, Bridgers e Dacus, per quanto giovanissime (due sono classe 1995, una 1994) siano in qualche modo legate al classic rock. A partire dall’immagine, dal momento che la copertina del loro primo EP richiamava quella iconica del disco di debutto di Crosby, Stills & Nash, mentre il servizio che qualche mese fa Rolling Stone ha dedicato loro è chiaramente ispirato a quello che la stessa rivista statunitense dedicò ai Nirvana nel 1994. E se proprio vogliamo individuare un periodo in cui ipoteticamente un disco come The Record sarebbe potuto uscire, ebbene è proprio a cavallo tra il 1993 e il 1994, dato che la produzione e la scrittura delle canzoni fanno venire in mente più di qualche volta l’alternative rock dei cosiddetti Clinton Years, e più precisamente un’artista come Liz Phair e i suoi primi due lavori, Exile in Guyville e Whip-Smart. È infatti da lì che sembrano uscite due canzoni come “$20” e “Satanist”, per non parlare di “Not Strong Enough”, che nel ritornello cita (rovesciandone l’assunto) “Strong Enough” di Sheryl Crow, guarda caso inclusa nell’album Tuesday Night Music Club del 1993.
Siedono sulle spalle dei giganti anche pezzi come “Leonard Cohen”, che contiene porzioni di “Anthem” dello stesso cantautore canadese (da The Future, stavolta siamo nel 1992), “Revolution 0”, che richiama nel titolo la famigerata “Revoltion 9” dei Beatles, mentre “Cool About It” è a un passo dall’essere un plagio di “The Boxer” di Simon & Garfunkel (tanto che le Boygenius nei crediti se la cavano con la formula «Grazie a Paul Simon per l’ispirazione»).
The Record è chiaramente un disco post-moderno e assolutamente contemporaneo, inciso da tre Millennials per le quali la musica non è più concepita come una linea continua che dal passato porta al presente e da lì al futuro, ma è invece un teseratto a cinque dimensioni dove passato, presente e futuro coesistono. Ed è da lì che tirano fuori pezzi splendidi come “True Blue”, che quindici anni fa avrebbe fatto da colonna sonora a una puntata di Grey’s Anatomy mentre magari oggi è scelta da un ragazz? della Generazione Z per un video su TikTok. Ma anche “Not Strong Enough” è una grande canzone, capace di mettere insieme un basso alla New Order e un certo country-pop. Lo spettro della Joni Mitchell degli esordi è invece presente sia in “We’re in Love” sia in “Without You Without Them”, entrambe scritte da Lucy Dacus: due gioielli che fanno capire come la penna migliore tra le tre sia senza dubbio la sua.
“Anti-Curse”, cantata da Julien Baker, sostenuta da un bordone di tastiere spettrali e un basso new-wave molto avanti nel mix, sembra invece uno dei pezzi che chiudono The Joshua Tree degli U2, quando il disco esaurisce l’ottimismo propulsore dei brani d’apertura e va a rifugiarsi nel deserto della non-speranza. In “Emily I’m Sorry” e “Leonard Cohen”, invece, le Boygenius si rifanno alle atmosfere disperatamente delicate dei dischi di Elliott Smith e Iron & Wine, due maestri indiscussi dello spleen. Il disco si chiude con “Letter to an Old Poet” di Phoebe Bridgers, che riprende concettualmente la prima hit del gruppo, “Me & My Dog”, e racconta di un «amore che consuma tutto» e di «quando qualcuno ha così tanto potere su di te da smettere di essere una persona», come ha rivelato l’autrice in un’intervista.
A pensarci bene, la vera sorpresa di The Record è quanto bene funzionino Baker, Bridgers e Dacus insieme. Come ha notato qualcuno, i loro tratti individuali non sono stati cancellati, ma anzi, sono stati levigati affinché combaciassero perfettamente. Tanto che sono sì presenti i momenti acustici e riflessivi che tanto hanno caratterizzato le rispettive produzioni soliste, ma forse i momenti più convincenti del disco sono quelli dove le tre si lanciano senza paracadute e alzano il volume delle chitarre. Ed è proprio per questa ragione – una sorta di euforia auto-indotta – che il collettivo Boygenius paga i propri dividendi. Baker, Bridgers e Dacus sono tre cantautrici di successo che potrebbero tranquillamente portare avanti la loro carriera senza problemi. Invece scelgono deliberatamente di collaborare perché sanno benissimo che solo grazie alla presenza delle altre la loro voce e la loro scrittura ne esce amplificata.