Ricordo ancora perfettamente la prima volta che ascoltai alla radio The Road To Hell. Era il 1989, il mondo ed io eravamo ancora piacevolmente intontiti da Brothers In Arms dei Dire Straits e, complice uno speaker distratto in un periodo in cui non si poteva fruire istantaneamente di tutte le informazioni, rimasi convinto fino all’acquisto del CD che Mark Knopfler fosse ospite nella canzone. Invece no, quel turbinio di chitarre era tutta farina del sacco di Chris Rea, che dopo il valido Dancing With Strangers tornava sulla scena con un lavoro che rimarrà il suo apice, anche se nei primi anni del duemila vivrà una delle sue innumerevoli rinascite.
Già anche nei precedenti, ottimi On The Beach e Shamrock Diaries l’artista britannico di padre italiano aveva cominciato a smarcarsi dal pop rock raffinato e cominciavano ad affiorare le sue influenze primordiali.
E ora arrivava un’opera compatta, musicalmente completa e ben suonata grazie all’apporto dei fedeli Max Middleton, Martin Ditcham, Robert Ahway, Edghan O’Neill e Kevin Leach.
Il disco parte subito forte con la title track divisa in due parti. La prima, lenta e guidata da un’atmosfera malinconica, tratta dell’ultimo avvertimento ricevuto dall’uomo per evitare di sprofondare all’inferno e fa da preludio al fragore e al pezzo forte della raccolta, la più famosa Part 2.
Il riff è indimenticabile, melodia e liriche lasciano attoniti per quattro minuti e mezzo.
Il dado è tratto, la strada è percorsa. L’essere umano, con le sue scelte inesplicabili ha ceduto alla forza della violenza e del male e niente, nemmeno la tecnologia (o forse il progresso) può riportarlo agli ormai lontani fasti. Tema quanto mai attuale che ha avuto i suoi cantori in ogni epoca.
Non c’è tempo per prendere fiato perché parte un’altra invettiva con You Must Be Evil. Stavolta viene demonizzata la televisione, ovvero l’uso distorto di essa che sta prendendo piede. Si finisce per terrorizzare i bambini e destabilizzare gli adulti…
Ci sarà spazio per altri argomenti dopo un inizio così disarmante? Certamente! La leggerezza, il candore e i ritmi tranquillizzanti di Texas han fatto sì che lo stato americano l’abbia adottata quasi come un inno, mentre il blues moderno di Your Warm And Tender Love parla di una costante ricerca e bisogno di un amore vero, desiderio concretizzato in I Just Wanna Be With You.
L’album non ha punti deboli: la lunga, speranzosa Looking For A Rainbow è pervasa dalla calda voce di Chris e gira attorno ad alcuni accordi che fanno zampillare un sound duro, creando un groove afoso ben adatto alla fatica che si deve provare per, come dice il testo, cercare un arcobaleno, trovare una pace non solo esteriore.
Come accade in ogni grande opera c’è sempre una traccia sottovalutata ai tempi… una piccola canzone oscurata dai pezzi forti che possiede una potenzialità enorme e viene riabilitata con il passare degli anni. E capita proprio alla fine: con archi magistralmente arrangiati da Max Middleton e l’orchestra capitanata e diretta dal Maestro Gavin Wright, arriva Tell Me There’s A Heaven. Era accaduto all’inizio del viaggio verso l’inferno e ora di nuovo torna la calma nell’epilogo. Un padre sussurra parole di speranza alla giovane figlia, devastata dalla tristezza per essere venuta a conoscenza della sofferenza e morte di tanti piccoli coetanei nel mondo. In realtà tutto questo bisogno di essere rasserenati di fronte a tante ingiustizie è quanto più di ogni cosa avrebbe bisogno il genitore, voglioso anche se ormai quasi incapace di credere in un futuro migliore.
Metafora di Rea che, negli anni ‘90, a parte i sussulti di God’s Great Banana Skin ed Expresso Logic perse la vena migliore e piano piano inforcò la via dell’oblio e del declino artistico. Come se ciò on bastasse, le sue condizioni fisiche peggiorarono a tal punto da porlo sull’orlo del precipizio, tra la vita e la morte. Riuscì a sconfiggere il cancro al pancreas e tenne fede a una promessa fatta in quel momento difficile. Rinunciò a un contratto con una casa discografica che gli proponeva un ritorno sulle scene alla grande, ma a scapito di un vero valore artistico, e si rigettò nella musica (o il genere) che maggiormente gli aveva dato ispirazione e soddisfazione, il Blues.
Da qui la rinascita, a partire dal folgorante e spiazzante Dancing Down The Stony Road (2002). Seguiranno svariati progetti fino ai giorni nostri. Non mancheranno le esibizioni live e, purtroppo, pure ulteriori problemi di salute. Gli alti e bassi non lo lasceranno mai, ma rimarrà sempre un musicista capace di non scendere a compromessi, fiero dell’arte creata veramente a sua immagine e somiglianza.