Bromley, sobborgo situato a sud-est di Londra, è uno dei “nomi” più mitizzati nella storiografia punk. È qui che la scintilla accesa dai Sex Pistols tra la fine del 1975 e gli inizi del 1976 dà vita al cosiddetto “Bromley Contingent”, espressione coniata dalla giornalista Caroline Coon per descrivere una manciata di fan/amici di Rotten & Co., alcuni dei quali vivevano, appunto, a Bromley.
Siouxsie Sue, Steve Severin, Bertie ‘Berlin’ Marshall, Billy Idol, Soo Catwoman, Simon Barker, Sharon, Jordan, Tracey: sono i nomi più noti del “contingente”, descritti come “un drappello di poseurs impenitenti che cercavano la fama a tutti i costi nonostante mancassero di qualsivoglia forma di talento che non fosse quello di farsi notare; raggiunsero il loro obiettivo grazie alla bella mostra di sé meticolosamente studiata per uccidere” (Julie Burchill/Tony Parsons, The Boy Looked At Johnny, liberamente tradotto dal sottoscritto).
Innamorati dell’immaginario glam di Bowie, Bolan e Roxy Music (è a un concerto di questi ultimi che, nel 1974, Siouxsie e Severin fanno la reciproca conoscenza), questi “poseurs impenitenti” si ritrovano ai concerti e cominciano a frequentarsi, accomunati da una (mal)sana voglia di esibizionismo.
Simone Thomas: “Avevo 16 anni all’epoca. La mia vita girava attorno a David Bowie e ai Roxy Music, ai vestiti e ai concerti. Incontrai Siouxsie proprio a un concerto dei Roxy Music, veniva dalla stessa zona di Londra da cui provenivo anch’io e aveva iniziato ad andare in giro con Severin… cominciammo a trovarci assieme ad altre persone come noi… diventammo noti come ‘Bromley Contingent’ dopo il concerto dei Sex Pistols all’Orpington College… fummo i loro primi fan.”[1]
Norah Foster, futura moglie di John Lydon, la prima volta che vide Siouxsie: “Fu uno shock… se ne andava in giro con addosso solo il reggicalze e un piccolo reggiseno di pelle che le lasciava il seno nudo. Ero sbalordita. Quella sera non riuscii ad ascoltare i Sex Pistols perché lei era seduta nella fila dietro la mia e non riuscivo a smettere di guardarle le tette. Mi fece sentire una sfigata.”[2]
Siouxsie Sioux nasce Susan Janet Ballion il 27 maggio 1957 a Southwark, Londra. Dopo un’infazia grigia ma tutto sommato tranquilla nella suburbia londinese (e precisamente a Chislehurst, nel Kent) arrivano i primi tormenti e le prime inquietudini adolescenziali. Subito dopo la morte del padre (cirrosi epatica), la quattordicenne Susan ebbe un attacco di colite ulcerosa quasi fatale. Solitaria e scostante, inizia a interessarsi alla musica e allo stile glam, cosa che le consente di entrare in contatto con altre “creature simili”. Oltre ai concerti, prende a frequentare le discoteche gay locali, abbigliandosi, ça va sans dire, in modo provocatorio e disturbante.
Il 9 dicembre 1975, al Revensbourne College di Chislehurst, quattro teppistelli londinesi si esibiscono in un violentissimo concerto di circa cinquanta minuti. Il cantante ha i capelli verdi e quando non ringhia rabbioso nel microfono, sputa sul pubblico e lo insulta. Sono i Sex Pistols e questo è il loro sesto concerto ufficiale. Susan non era presente, ma Severin sì e ne rimase talmente sconvolto ed elettrizzato da convincere l’indolente Susan a fare una scappata a Londra, nel febbraio seguente, per vederli suonare. La ragazza si trovò immediatamente in sintonia con i Pistols e con ciò che rappresentavano. Assieme al resto della combriccola di Bromley, decise di seguirli ovunque suonassero. Sono i primissimi e (posto che si possa parlare di autenticità nel punk) “autentici” punk londinesi.
Il loro look è ancora assai lontano dalle future creste multicolor che spunteranno dappertutto fino a metà anni Ottanta almeno: abbigliamento fetish e bondage ricodificato in chiave post-glam e carico di simboli utilizzati in modo naïf per creare un effetto shock. Questa dissennata naiveté causerà alla stessa Susan qualche grattacapo in Francia, quando assieme al “contingent” vi si reca, a metà del 1976, per assistere a un concerto degli amati Pistols, indossando al braccio una fascia nera con la svastica. Fu malmenata e non poco, a quanto si dice.
A Londra, il “punk” comincia a far parlare di sé, anche se per il momento rimane ancora un fenomeno circoscritto al sottobosco underground. La storia del punk credo sia nota a tutti, grazie anche al profluvio di libri che a partire già dal 1977 hanno inondato il mercato, e non è questa la sede per approfondirne origini, natura e lasciti. Per meglio comprendere quanto sta leggendo, al lettore poco avvezzo alla materia basti sapere che una delle eredità fondamentali della “nuova ondata” (come fu chiamata inizialmente) fu l’etica del DIY, il Do It Yourself, mirabilmente esemplificata sulla celebre copertina della “fanzine” Sideburns nel gennaio 1977. L’idea del “tutti possono farlo” è forse il lascito più importante del punk: pur non riuscendo a sovvertire totalmente le regole del music business, ha senza dubbio contribuito a modificarne il tessuto.
Susan e Severin – spugne che oltre a ettolitri di alcol assorbivano benissimo anche il mood del momento – videro in tutto questo bailamme l’opportunità di provare a realizzare il loro sogno. L’occasione si presenta quando Malcolm McLaren organizza al 100 Club il primo “festival punk”. I due, però, non hanno mai preso in mano uno strumento. Poco importa. La loro intenzione non è quella di proporre rock convenzionale: vogliono “suonare il caos”, vogliono farlo in un solo ed unico concerto e poi sparire. Se questo non è punk…
Sarebbero esistiti i Banshees se all’ultimo minuto uno dei gruppi già ingaggiati per la kermesse non avesse rinunciato a suonare? Appena ricevuta la notizia della defezione, Susan e Severin si catapultano da SEX, il negozio di McLaren, e lo convincono (non ci volle molto, per la verità) a concedere loro lo spazio vacante. Assoldano sui due piedi un chitarrista vero, Marco Pirroni, e piazzano alla batteria un personaggio assai noto nella scena, tale John Simon Ritchie, che di lì a pochissimo diventerà massima icona e “martire” del punk col nome di Sid Vicious. I quattro hanno poco meno di 48 ore per provare, ma decidono che non ce n’è (quasi) bisogno: saliranno sul palco e improvviseranno il loro caos.
Il cartellone del 100 Club Punk Special era spalmato su due serate per un totale di otto gruppi. Lunedì 20: Subway Sect, Suzie And The Banshees, The Clash e Sex Pistols; martedì 21: Stinky Toys, The Vibrators, The Damned e, a chiudere, i Buzzcocks.
L’esordio ufficiale di “Suzie And The Banshees” (così come scritto sulla locandina dell’evento) reca dunque la data di lunedì 20 settembre 1976. Ciò che quella sera esce dagli amplificatori non è descrivibile se non come frastuono: un maelstrom di feedback chitarristici e il basso di Severin che di tanto in tanto tuona note a caso sui farraginosi tam-tam pre-tribali prodotti a fatica da un Sid Vicious più di là che di qua. Su tutto, la voce di “Suzie” che declama il Pater Noster (il “brano” – d’uopo le virgolette – sarà opportunamente intitolato “The Lord’s Prayer”) intercalandolo con versi presi a casaccio da classici del rock (si possono riconoscere distintamente “Twist And Shout”, “Helter Skelter” e “Knockin’ On Heaven’s Door”) e deliri verbali improvvisati. Vanno avanti così per 20 minuti, poi si fermano e scendono dal palco. Un massacro. (Cerando un po’ sul web, non è difficile trovare la registrazione audio, peraltro di pessima qualità, della serata).
Per quanto privo di valore dal punto di vista musicale, quel concerto rimane uno degli apici dell’estetica punk, forse la quintessenza del concetto stesso di punk. È il DIY spinto oltre i limiti, dove non c’è più distinzione tra chi sta sopra il palco e chi sta sotto; una dichiarazione d’intenti che nasce, vive e muore nell’arco di 20 minuti perché non può e non deve aver seguito; è l’epitome del nichilismo e della blasfemia, un cazzotto in faccia a tutti, indistintamente; è la Tradizione brutalmente sodomizzata senza riguardo alcuno. 20 minuti di esilarante follia, 20 minuti davvero dissacranti e davvero profanatori, 20 minuti che aprono una voragine all’interno della quale viene risucchiato il significato stesso di “punk” per poi essere rigurgitato, più in là nel tempo, già espurgato di tutta la primigenia carica eversiva. Non appena l’ultimo sibilo di feedback si scioglie nel silenzio, il punk è già morto, incenerito dal nonsense e dalle contraddizioni intrinseche al suo stesso DNA: è già “moda”, fashion.
Oltre all’esordio live, la cronaca rileva l’infame apparizione in diretta televisiva del 1 dicembre 1976 nel programma “Today”, un format pomeridiano per famiglie in onda all’ora del tè. Quel pomeriggio avrebbero dovuto esserci i Queen, che tuttavia poche ore prima diedero disdetta. La EMI propose allora alla Thames TV di ospitare al loro posto una giovane e promettente band entrata da poco in scuderia: i Sex Pistols. Detto fatto. Mc Laren spedisce i quattro, assieme al Bromley Contingent, negli studi della BBC. Il resto è leggenda, più che storia.
Il volto di Siouxsie, un po’ tondo, con la stella nera disegnata intorno all’occhio e i cortissimi capelli ossigenati, campeggia sulle prime pagine dei tabloid del giorno dopo, regalandole la fama e il titolo (va detto solo per onor di cronaca) di “regina del Punk”. Di fatto, invece, la sua “fase punk” termina proprio qui.
Nelle settimane che seguono, Siouxsie e Severin iniziano a dar forma alla loro “idea di band” e ingaggiano due eccellenti strumentisti, Kenny Morris alla batteria e John McKay alla chitarra, con lo scopo di realizzare ed affinare il sound che hanno in mente, qualcosa di non dissimile (si sentiranno dire i due increduli nuovi entrati) a “Bolan incontra i Velvet Underground che suonano la colonna sonora di Psycho.”
Le primissime composizioni originali risentono ancora dei tentacoli punk, in particolare “Make Up To Break Up”, vero e proprio inno, e “Bad Shape”. Ma già con “Suburban Relapse” e “Metal Postcard” (che finiranno anche sul magnifico album d’esordio) suono e stile cominciano a fasi estremamente personali, lontanissimi dal ruvido fascino e dall’antagonismo sociale tipici del periodo. I Banshees intraprendono anche un’intensa attività live assieme ad alcune tra le più blasonate band del momento, The Slits, The Adverts, Adam And The Antz, e altre meno note come gli Unwanted.
L’estate del ’77 è da sempre “l’estate punk”: Londra brucia e i gruppi spuntano come funghi. (A dire il vero, sarebbe l’estate del Silver Jubilee della Regina Elisabetta - sì, esatto, quella che si vede ritratta nella celeberrima fotografia di Jamie Reid con gli occhi coperti dalla scritta GOD SAVE THE QUEEN e la bocca sigillata dalle parole SEX PISTOLS - ma questa è un’altra storia). I Banshees raccolgono consensi ovunque. Sono già in molti a ritenerli, se non la migliore, sicuramente la più interessante e originale tra le band della “nuova ondata”. Anche perché, pur conservandone, come già si è avuto modo di ribadire, lo spirito, i quattro stanno opportunamente allontanandosi dal punk più ottusamente ortodosso e militante, diretti verso una sorta di avanguardia che li colloca all’estremo opposto del consunto canovaccio rockettaro in stile Clash. La musica di Siouxsie And The Banshees, soprattutto in questa prima fase, è probabilmente quanto di più disturbante si sia mai sentito in quel di Londra: inquieta e seduce a un tempo nel suo essere naturalmente “anti-rock”.
Dicembre 1977: la prima John Peel Session del combo coincide anche con la prima copertina dedicata loro da una rivista musicale. Sounds ritrae la cantante on stage, la didascalia recita “The Ice Queen”. Siouxsie è già un’icona, ma di proposte contrattuali nemmeno l’ombra e le case discografiche sonnecchiano. Ci pensa il manager Nils Stevenson a svegliarle dal torpore.
Sui muri della capitale inglese cominciano ad apparire scritte che reclamano “SIGN THE BANSHEES!” e, guarda caso, le case discografiche abboccano. Sarà la Polydor a spuntarla nei primi mesi del 1978, garantendo loro il “completo controllo artistico”. E pensare che i Banshees, preso atto del disinteresse del mondo discografico, erano sul punto di pubblicare come primo singolo la versione di “Hong Kong Garden” registrata per John Peel (febbraio ’78) tramite la BBC Records, che si era resa disponibile grazie all’intercessione del celeberrimo DJ.
“Hong Kong Garden” - accoppiata a “Voices (On The Air)” sul lato b – viene incisa ex-novo agli Olympic Studios di Londra e pubblicata su etichetta Polydor nell’agosto di quell’anno, balzando immediatamente alla settima posizione della classifica dei singoli nel Regno Unito. Il titolo del brano fa riferimento al nome del ristorante cinese takeaway di Chislehurst e il testo, per citare Simon Goddard, è “un tardivo sfogo di frustrazione adolescenziale.” Saranno almeno un paio le generazioni a venire che pagheranno il dazio a questa piccola gemma post-punk.
In novembre, esce finalmente The Scream, magnifico debut a 33 giri. È l’urlo liberatorio dei Banshees (che nulla ha a che vedere con “l’urlo” di Munch), un manrovescio in faccia a chi crede che il “rock” sia faccenda esclusiva per cazziduri.
Questa musica, che a tratti rasenta la grandeur, è un monumento eretto al rifiuto del sublime; tagliente come una rasoiata imprevista di prima mattina mentre ancora assonnato tenti di raderti, claustrofobica come un ascensore bloccato al tredicesimo piano, spigolosa, urticante, velenosa, acidula poesia recitata masticando vetri e petali di rose nere…
The Scream è la ghigliottina che decapita gli ultimi residui di buonismo cosmico, chiudendo definitivamente le “porte della percezione” e aprendone altre, ben più occulte e pericolose, da cui fuoriescono spiriti che danzano sui ritmi primordiali scanditi dal basso di Severin e dalla batteria di Morris, tentando di scansare le pugnalate a tradimento della chitarra di McKay e lasciandosi guidare dal canto di Siouxsie: robotica nei teutonici fremiti di “Metal Postcard”, maestosa nel proto-goth post-prog (bella questa, eh?) di “Switch”, algida e sensuale nella spinosa “Overground” e ancora superbamente punk in “Mirage”.
Siouxsie, rompendo con la tradizione, liberò – assai più degli acidi movimenti femministi sessantottini – un nuovo archetipo di femminilità, poco incline alla sottomissione (se non per puro divertimento sessuale e quindi per scelta) ed emancipato per natura, non per concessioni di legge. Non ci sono pari opportunità, ma soltanto opportunità. E lei, queste opportunità, se le prese tutte, senza chiedere, senza ergersi a pasionaria e senza perdersi nell’anonimato spersonalizzante della militanza femminista.
[2] Ibidem.