Per una volta potremmo avere davanti un disco non difficile da interpretare. Un disco, addirittura, che non va neppure interpretato, sempre che i primi ascolti non ci abbiano mandato fuori strada.
Per prima cosa occorrerebbe chiedersi che cosa deve avere dentro un musicista, un songwriter, per dilazionare così tanto la sua produzione nel corso degli anni. Solo due dischi in 17 anni per Josh T. Pearson, dalla fine di quel monumentale e stravagante progetto che furono i Lift To Experience.
Lo vidi per la prima volta un paio di estati fa a Vasto, fece un concerto in chiesa, la domenica mattina, subito dopo la messa. Lo ricordo ancora ai lati dell’altare, paziente, mentre aspettava che i fedeli defluissero ed entrassero quelli che erano rimasti pazientemente fuori ad aspettare.
All’epoca sapevo solo vagamente chi fosse; certo ignoravo totalmente “The Texas Jerusalem Crossroads”, quel parto visionario che, avendolo recuperato solo di recente, mi ha fatto domandare dove diavolo fossi nel periodo in cui uscivano certi capolavori (il tempo perduto non si recupera e morirò nella mia ignoranza, ormai lo so).
Fu un concerto intenso, potente, a tratti commovente e a tratti noiosissimo. Era lui con la sua voce e la sua chitarra, i pezzi sembravano crude epopee faulkneriane e non finivano più. Tornato a casa ascoltai “The Last Of the Country Gentlemen” e lo trovai tremendamente affascinante, pur facendo parecchia fatica ad arrivare alla fine.
“The Straight Hits!” è uscito un mese fa e lo avevo snobbato potentemente, facendo finta di non accorgermi che il nostro eroe indossava un completo chiaro e assurdamente elegante, che la barba da Amish era sparita, sostituita da un paio di baffi sottili e che la copertina, con quella parete pitturata a doppia sfumatura di rosa, assomigliava molto da vicino ad una presa per il culo.
Alla fine l’ho ascoltato: potenza dell’hype e di quel bisogno irresistibile che ti spinge a non rimanere indietro su un lavoro di cui tutti sembravano parlare benissimo.
Non ho la più pallida idea di che cosa abbia fatto Josh T. Pearson in questi sette anni. Di sicuro è uno che esce solo e soltanto quando ha qualcosa di interessante da dire e di sicuro deve aver pensato che, presentandosi al suo pubblico dopo così tanto tempo, tanto valeva cambiare le carte in tavola, stravolgere il proprio look e renderlo adeguato accompagnamento di una proposta musicale alquanto schizofrenica, se paragonata con quella del passato.
Capire le ragioni di tale cambiamento non è compito nostro. Lui stesso non ce l’ha spiegato, limitandosi a raccontare di aver bruciato i vecchi vestiti, di essersi tagliato la barba e di aver buttato giù un decalogo in cinque punti per la scrittura delle nuove canzoni. Che stabiliscono, tra le altre cose, che i nuovi pezzi avrebbero dovuto avere una struttura tradizionale (strofa-bridge-ritornello) e contenere non più di 16 righe di testo. Che è poi esattamente il contrario di quanto aveva fatto in precedenza, con le sue narrazioni fiume da folksinger rurale.
“The Straight Hits!” è dunque un disco emblematico sin dal titolo: canzoni di facile presa, immediate e “dritte al punto”, con tutte le potenzialità per scalare le classifiche.
E l’aggettivo “Straight” è davvero il modo migliore per inquadrare queste composizioni: non solo perché tale parola è sempre presente in tutti i titoli e in tutti i testi, come se fosse ossessione e monito a non cedere alla tentazione della prolissità, ma soprattutto perché questo è davvero un lavoro semplice e immediato, che non richiede chissà quale sforzo per essere compreso. Non a caso, in una recente intervista, Josh ha dichiarato che queste dieci canzoni sono fatte per essere ascoltate in qualunque contesto, anche mentre si stanno svolgendo altre attività. Musica di sottofondo, dunque. Che è poi quello che la musica non dovrebbe mai essere ma anche la fine che inesorabilmente le facciamo fare, in quest’epoca di mille impulsi in cui tutto accade contemporaneamente.
È un disco che parte fortissimo, infilando una tripletta dai ritmi elevatissimi, che si muove tra Alt Country e Garage Rock, con le chitarre elettriche e le tastiere a riempire totalmente lo spazio che un tempo era stato delle acustiche e del violino di Warren Ellis. “Straight To the Top”, coi suoi stacchi rumoristici tra una strofa e l’altra, appare quasi come una versione dei Bad Seeds in salsa texana (un po’ lo ha detto anche lui quindi gliela riutilizziamo senza problemi) mentre “Give It To Me Straight” è un rock and roll trascinante e sgangherato, di quelli che si potrebbero ballare ubriachi sui tavoli di un pub di terza categoria.
Anche se gioca a fare l’allegrone, Pearson si trova molto più a suo agio quando lavora sugli umori cupi: da questo punto di vista, “Loved Straight To Hell” e “A Love Song (Set Me Straight)” risultano gli episodi migliori del disco, con quel feeling drammatico, la struttura questa volta non propriamente lineare e una scelta di suoni pieni e profondi, con i fiati a fungere da vero e proprio elemento decisivo nella seconda. In pratica, quel che sarebbe successo se Johnny Cash avesse caricato di elettricità le sue famose Session con Rick Rubin.
Altrove invece si ricorda di avere un tempo interpretato la parte del folksinger e di non volervi del tutto rinunciare: “Straight Laced Come Undone”, “The Dire Straits of Love” (omaggio neanche troppo velato alla band di Mark Knopfler, di cui si è detto grande estimatore), “Whiskey Straight Love”, si riallacciano dunque al suo vecchio repertorio, seppur meno funeree e molto più concentrate sulla sostanza.
Da ultimo, ciliegina sulla torta, c’è anche “Damn Straight” di Jonathan Terrell, anche lui di Austin, scelta facendo ricerche a caso su Google, perché voleva una cover per completare la tracklist ma aveva bisogno che ci fosse “straight” nel titolo: ditemi voi se non è un mito, uno così.
Inciso in pochi giorni, con l’apporto del batterista Andy Young (già coi Lift To Experience), del tastierista Daniel Creamer e del bassista Scott Lee Jr., la seconda prova del Pearson solista dimostra come l’autore texano sia in possesso di grandi doti anche quando si tratta di muoversi su un terreno di scrittura più lineare (che è anche quello più difficile, di solito). Un disco semplice ma non scontato che ha il suo più grande merito, mi pare, nel mostrare come la tradizione americana e l’attitudine alternativa possano coesistere senza problemi. Detto in altro modo, Josh T. Pearson, per storia e passati trascorsi, non è il classico nome che attirerebbe le attenzioni del lettore medio del Buscadero; eppure, potrebbe tranquillamente piacere anche a lui, a maggior ragione con “The Straight Hits!”.
Speriamo di poterlo vedere ancora dalle nostre parti anche se, francamente, mi sembra molto poco probabile.