Qualche tempo fa ho letto un articolo (credo fosse di Carlo Bordone ma non ci giurerei) che cercava di dare una spiegazione a quello strano fenomeno che molti, tra i critici e gli appassionati di musica, hanno incominciato da qualche tempo a far notare: Taylor Swift sarebbe, in sintesi, la prima popstar mondiale di cui nessuno, tra il pubblico generalista, è in grado di citare una canzone. Non è una semplice boutade, qualcosa di vero c’è: se ci pensiamo, non esiste (almeno non qui da noi) quel fenomeno per cui tutti cantano un suo brano senza sapere che sia lei l’autrice.
Detto questo, se si volesse utilizzare tale dato per sostenere che l’artista della Pennsylvania sia sopravvalutata, siamo decisamente fuori strada. L’apparente anonimato delle canzoni si spiega, a mio parere, in due modi: il primo lo ha sintetizzato benissimo Bordone (o chi per lui), ed è che nell’era di Internet e dei Social si procede molto di più per nicchie chiuse piuttosto che per un unico e aperto universo di riferimento; ragion per cui è possibile avere autentici fenomeni da decine di milioni di ascolti, senza che chi è all’esterno di quelle nicchie si sia fatto penetrare in alcun modo (confrontate il recente caso dei BTS con quello degli One Direction o, prima ancora, dei Take That, e avrete un’idea).
Il secondo, ha a che fare con la natura particolare del fenomeno Taylor Swift: le canzoni ci sono, non sarebbe mai arrivata dov’è ora se avesse avuto un songwriting debole, il successo è stato graduale ed è iniziato sin dal primo disco; eppure, allo stesso tempo, tutto questo non ha mai riguardato veramente le canzoni: dal rapporto particolare coi fan (ai tempi di Myspace la leggenda vuole che rispondesse, uno per uno, a tutti quelli che le scrivevano) alla creazione e alla promozione del merchandising, alla vita privata raccontata nei dischi come fosse un romanzo, al modo innovativo in cui ha trattato i diritti d’autore e ha mantenuto il controllo totale della propria musica e delle proprie scelte, tutto fa di lei un caso senza precedenti nel mondo del music business. E non è neanche il fatto che da quando fa coppia con Travis Kelce la sua figura abbia raggiunto orizzonti di pubblicità inediti, assumendo anche dimensioni politiche (di personaggi pubblici sovraesposti ne abbiamo avuti anche prima); il fatto è che oggi, anche in Italia, Taylor Swift la conoscono tutti ma il suo repertorio è ancora appannaggio esclusivo dei fan.
The Tortured Poets Department (titolo suggestivo che rimanda all’ennesimo capitolo di quel diario di un cuore tormentato che è la sua discografia) è stato annunciato a febbraio, il giorno dei Grammy (dove ovviamente il precedente Midnights si è portato a casa il premio per il miglior album; è il quarto anno di fila che accade) e, contrariamente all’andazzo odierno, non è stato anticipato da singoli, video e quant’altro.
È stato “droppato” (anglicismo raccapricciante ma ci tengo ad essere al passo coi tempi) sulle piattaforme tutto insieme, mentre la versione fisica, per un’altra di quelle genialate del marketing di cui sopra, sarebbe uscita in quattro versioni, ciascuna con una diversa bonus track.
Immaginiamo che in tanti le avranno collezionate tutte, ma se non altro a noi ha risparmiato la fatica (e i soldi): due ore dopo l’uscita è comparsa una versione The Anthology contenente 15 brani in più, compresi i 4 di cui abbiamo detto.
Che dire dunque? Che in tempi di mordi e fuggi, di singoli volanti e album da 23 minuti a lei piaccia andare controtendenza non è affatto una novità: tutti i suoi dischi superano i 50 minuti, se aggiungiamo tracce aggiuntive, primi lavori riregistrati in versione doppio cd con decine di inediti, raggiungeremo un corpus ben più consistente degli undici album effettivamente pubblicati. Questa volta però si sta forse esagerando: parliamo di 31 canzoni, per una durata totale di 2 ore e 2 minuti.
Non abbiamo dubbi sul fatto che gli swifties assimileranno tutto, testi e musiche, nel giro di poche ore, non è quello il problema. Il problema è che un artista non è mai proprietà esclusiva dei propri fan, ha il diritto di essere ascoltato e commentato da chiunque, anche da chi possiede gusti musicali variegati ed ogni venerdì ascolta senza problemi decine di nuove uscite.
Non dimentichiamoci neppure che siamo pure nell’epoca del giudizio netto, bianco o nero, se possibile espresso di getto, dopo non più di quindici secondi di riflessione, in ostaggio perpetuo di quella FOMO che ci condiziona anche quando andiamo al cesso.
Come si concilia, dunque, l’ascolto di due ore di musica con l’esigenza impellente di postare immediatamente un giudizio definitivo? Semplice, non si concilia.
Parliamoci chiaro: nessuno, al di fuori dei fan e di qualche critico musicale serio, ascolterà mai questo disco per intero. Si spareranno giudizi a caso e si verrà creduti, fine. Oggi funziona così, inutile anche immaginare che ci possa essere una modalità alternativa di rapportarsi ad un prodotto.
Detto questo, io il disco l’ho ascoltato tutto più volte (come ho fatto? Ho lasciato perdere tutto il resto per un paio di settimane, ovvio) e sarei dunque in grado di esprimere un parere ragionato.
E dunque è un bel disco oppure no?
Credo personalmente, e so di non essere il solo, che Taylor Swift il meglio lo abbia già dato: la fase Country ha avuto il suo apice in Red (anche Speak Up e Fearless sono grandi dischi, però), quella Pop non è mai stata davvero eguagliata dal capolavoro 1989, poi sono arrivati Folklore ed Evermore a certificare una inedita maturità, uno spessore autoriale impensato (o se non altro non rilevato da chi normalmente nella vita ascoltava altro), con la produzione e la scrittura di Aaron Dessner che le sono valsi il plauso degli appassionati di rock alternativo e addirittura di una buona fetta della community dei soloni nostrani.
Sinceramente, per me ci si sarebbe anche potuti fermare qui. Invece, a continuare imperterriti con un disco all’anno o quasi, si finisce per farsi male. Specie se ci si ostina a voler collaborare con un Jack Antonoff che, sarà pure baciato dal talento, ma dopo che da anni scrivi anche per Lorde e Lana del Rey, un po’ di effetto déjà vu è abbastanza difficile evitarlo.
Midnights è stato un buon lavoro ma dava la sensazione di un’artista che stesse proseguendo col pilota automatico, giocando di mestiere senza troppi sensi di colpa, galvanizzata da quella sconfinata community di adoratori che mai si sarebbero sognati di far notare che sì, in effetti le canzoni cominciavano ad assomigliarsi un po’ troppo.
Questo nuovo lavoro riparte da dove si erano interrotti gli ultimi tre, ovvero da quel Pop raffinato e down tempo, malinconico e crepuscolare che dominava sul precedente disco, laddove invece la parte “aggiuntiva” ha un mood molto più vicino a quello di Folklore, anche perché ci ha messo ancora le mani Aaron Dessner.
Per il resto, Jack Antonoff è sempre della partita, così come Louis Bell, mentre per quanto riguarda gli ospiti, ci sono Postmalone nell’iniziale “Fortnight” (che è un gran bel pezzo, bisogna dire) e Florence Welch in “Florida”, che è anche uno dei pochi episodi a contenere qualcosa che sembri anche solo lontanamente ballabile.
A livello testuale, The Tortured Poets Department racconta la fine di due storie d’amore: quella con Joe Alwyn, durata sei anni, e quella, decisamente più breve, con Matthew Healy dei 1975 (che dalle canzoni a lui dedicate non esce proprio benissimo, diciamo). E qui, probabilmente, sta il vero vertice del disco: Taylor Swift ha sempre raccontato la propria vita sentimentale nelle canzoni, su questo i fan ci hanno costruito sopra una vera e propria saga, ma qui il livello si è decisamente alzato, la cura con cui rappresenta i dettagli, le mille sfumature dei racconti, il livello quasi maniacale di introspezione psicologica, la varietà linguistica e le metafore sfolgoranti, fanno di lei una delle migliori autrici di parole dell’ultima generazione, credo sia difficile metterlo in dubbio.
Dal punto di vista musicale, le cose sono un po’ più controverse: produzione e arrangiamenti sono di un altro pianeta come sempre (a questo giro forse addirittura di più), è tutto molto proporzionato, dosato sapientemente, e c’è una sorta di imperterrito anticlimax nella costruzione dei singoli episodi, per cui sembra che si voglia ottenere una hit senza ricorrere a ritornelli killer, mantenendo sempre tutto allo stesso ritmo (basso), inserendo giusto ogni tanto qualche hook interessante, ma ben lontano dalle sue produzioni più glamour.
La conseguenza è che ne esce un disco di introspezione narrativa, dove le parole hanno un peso molto maggiore rispetto alla musica, un disco Pop dove però, paradossalmente, il Pop è annegato in una dimensione a metà tra l’intimistico ed il crepuscolare; e nonostante tutto riesce comunque a fare breccia, a non annacquarsi in un mare di uscite tutte uguali.
Ripetitivo, certo, decisamente impossible da ascoltare tutto d’un fiato (anche se le tracce bonus sono alquanto diverse, per intenzioni e atmosfere, da quelle “regolari”), eppure anche straordinariamente elegante ed ispirato.
Meglio di Midnights, senza dubbio, perché appare più focalizzato, più intenso, più consapevole della direzione da prendere. Fosse uscito prima di Folklore, lo avremmo salutato con quello stesso entusiasmo, magari mettendone in risalto una non certo immediata fruibilità.
Adesso che la collaborazione con Aaron Dessner appare invece quasi scontata, che ci siamo abituati alle incursioni di Taylor all’interno di un certo Indie Rock d’autore, è divenuto difficile non sottolineare la ripetitività e la prolissità di un certo tipo di operazioni.
Se lo prendiamo singolarmente, tuttavia, The Tortured Poets Department è un disco che oggi praticamente nessuno è in grado di fare: elegante, profondo, ispirato. Con alcune vette assolute che potremmo indicare nella già citata “Fortnight”, nell’ironia amara della title track, nell’intenso grido di dolore di “But Daddy I Love Him”, o in lente e strascicate elegie come “Clara Bow” e “The Albatross”; persino in un divertissement patinato come “So High School” o nella brillante “Thank you aIMee”, probabilmente l’ennesimo episodio dell’infinito dissing con Kim Kardashian, che qui però assume una connotazione malinconica e indolente, in linea col resto del lavoro.
Nessuno che non sia un fan, lo ripetiamo, ascolterà mai questo lavoro per intero e forse, in fin dei conti, queste 31 canzoni sono ad uso e consumo esclusivo degli Swifties di tutto il mondo. Eppure, ancora una volta, Taylor Swift ha dimostrato a chiunque sia privo di pregiudizi, di essere un’artista gigantesca, non certo un prodotto del marketing. E potremmo davvero essere di fronte al suo disco più maturo, anche se non si tratta certamente del più bello.