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REVIEWSLE RECENSIONI
29/03/2019
Virginiana Miller
The Unreal McCoy
Se mai avrò modo di intervistare Simone Lenzi nell’immediato futuro, glielo chiederò senz’altro, anche perché immagino di non essere il solo ad avere questa curiosità.

I Virginiana Miller mancavano da sei anni e, come per tutti i gruppi a cui siamo affezionati, quelli che uniscono la grandezza della propria statura artistica ad una certa aria compiaciuta da “Best Kept Secret”, un periodo così lungo tra un disco e l’altro è decisamente difficile da sopportare.

Se però decidono di ripresentarsi al pubblico con un lavoro interamente cantato in inglese, è piuttosto naturale che la gioia venga sostituita dallo sconcerto.

Già, che cosa mai sarà saltato loro in mente? È una domanda forse destinata a rimanere senza una risposta soddisfacente ma è piuttosto inevitabile che l’analisi parta da qui e si prenda pure una bella fetta di spazio.

Simone Lenzi è sempre stato un paroliere di livello eccezionale, sia per come usava la lingua, sia per le cose di cui parlava. Fa strano dunque, sentirlo dichiarare senza mezzi termini che in italiano non aveva più nulla da dire e ascoltare la sua voce alle prese con una lingua che, per quanto possa padroneggiare bene, non sarà mai la sua.

Prevedibile invece il risultato finale: i Virginiana Miller, con questo cambio di idioma, sono diventati totalmente un’altra band. Certe atmosfere, certe ambientazioni, funzionavano prevalentemente con l’italiano. Di conseguenza, cambiare lingua ha anche voluto dire cambiare prospettiva di sguardo e dunque mutare anche il linguaggio musicale, non solo quello verbale.

Del gruppo a metà tra lo scanzonato e il decadente, denso di humor nero ma anche di dolcissima malinconia, oggi non c’è quasi più traccia. Lasciamo perdere i più grezzi esordi di “Gelaterie sconsacrate” e “Italiamobile”, che sono troppo lontani, ma oggi anche lavori come “Il primo lunedì del mondo” o il più recente “Venga il regno”, appaiono lontanissimi.

C’è più rock e meno Pop, in queste nuove composizioni; più chitarre e meno tastiere, un approccio meno sornione ed in qualche modo più serio, quasi noir.

“The Unreal McCoy” è l’approdo del gruppo livornese in America. Un’America che per i nostri artisti non è mai stata terra di conquista e che, salvo pochissime eccezioni, non abbiamo mai neppure particolarmente desiderato.

Ma è un’America che, come lo stesso gruppo precisa nelle note stampa, non è stata visitata bensì immaginata, un po’ come (lo dicono sempre loro) Emilio Salgari immaginava la sua India, in libri certamente ingenui ma dall’impatto fragoroso sull’immaginario collettivo.

La title track del resto è già emblematica: chi sia questo McCoy non è dato saperlo (verrebbe in mente il personaggio di Star Trek ma, in assenza di espliciti riferimenti, sembra dura affermarlo) ma questa canzone dal respiro solenne, epica come una cavalcata nella pianura, con un lavoro di chitarra magnifico e quasi del tutto inedito per gli standard del gruppo, ci trasporta in vari orizzonti ed in varie epoche, attraverso le incarnazioni di un personaggio letterario che alla fine si annovera però tra gli sconfitti, tra le immagini evanescenti di coloro che sono stati lasciati indietro.

È un’America crudele, in effetti. È raccontata attraverso un registro scuro, che prende come spunto ideale le radici Folk di un Neil Young o di un John Mellencamp e le riempie di stratificazioni sonore, le carica di saltuarie esplosioni elettriche e di sprazzi improvvisi di romanticismo, una colonna sonora tesa, ad alto tasso di drammaticità, che fa da sfondo a vicende che paiono appartenere agli ultimi scarti del Sogno americano: è il caso dell’ubriacone di “Old Baller” (che è anche l’episodio più ritmato, orecchiabile e quasi scanzonato del disco) o dell’io narrante di “Toast the Asteroid”, voce profetica al di fuori delle convenzioni sociali, che saluta una fine del mondo che appare unica soluzione per un quadro di irreversibile declino. Anche “Lovesong”, a dispetto del titolo e di un andamento che ricorda molto certe composizioni di Paolo Benvegnù, appare molto poco rassicurante e sembra appartenere anch’essa ad una narrazione da sconfitti (“We the psychos go on the rampage sometimes, we the bozos are in the average don’t mind”).

E che dire di “Motorhomes of America”, ballata delicata e malinconica, costruita su un bellissimo e solenne crescendo, dedicata proprio a quelle case mobili croce e delizia della società a stella e strisce?

Colpisce anche il quadro di desolazione che esce fuori da “Christmas 1933”, privata confessione immersa in un passato storico ma allo stesso tempo indefinibile.

In “The End of Innocence”, invece, il linguaggio musicale si fa più aperto, per una composizione quasi Country, un ritornello allegro che riesce solo in parte a velare la feroce ironia con cui Lenzi prende di mira una certa mentalità puritana tipica dei Wasp.

E probabilmente è “Albuquerque”, l’ultimo pezzo, quello più inusuale per gli standard della band, quello che ne fotografa maggiormente la mutazione esistenziale ed estetica. Lugubri accordi di piano fanno da base a lenti fraseggi di chitarra dal sapore Western, un cantato che ha l’andamento di un lamento funebre ed un retrogusto psichedelico ad abbellire il tutto.

In definitiva è un bel disco, che pur nella differenza di stile mostra una band ancora in grado di comporre brani intensi e per nulla banali. Certo, sarà dura abituarsi all’inglese ed è inevitabile che il livello dei testi sia sensibilmente calato: Simone è sempre un bravo narratore e costruisce immagini a tratti molto potenti. Il difetto sta semmai nell’uso del lessico, perché molte frasi o vocaboli impiegati sono fin troppo standard, presi a prestito da modi di dire, espressioni idiomatiche o quant’altro. Insomma, se in italiano eravamo al cospetto di piccole opere letterarie, ora la sensazione è di chi sta imparando ad utilizzare strumenti che non possiede del tutto. Si trattasse di un gruppo agli esordi non ci sarebbero problemi ma così è evidente che la cosa pesi. Forse sarebbe interessante raccogliere i pareri di chi eventualmente si avvicinasse ai Virginiana con questo disco, giusto per avere un feedback più aperto, libero dai condizionamenti.

L’unica cosa sicura è che inizia una nuova fase. Dopo vent’anni e sei album direi che ci può stare. Fare paragoni a questo punto non serve più. Immergetevi nell’America fittizia dell’irreale McCoy e venite a vederli dal vivo che non ci saranno moltissime occasioni, mi sa…