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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
25/10/2021
Bruce Hornsby and the Range
The Way It Is
The Way It Is compie trentacinque anni: rianalizziamo insieme il disco di debutto che ha portato Bruce Hornsby subito alla notorietà, lanciando la title track nell’orbita delle canzoni immortali.

Constatare che "The Way It Is", title track dell’omonimo album di Bruce Hornsby, venga ogni tanto trasmessa pure dalle radio commerciali nazionali ha un sapore agrodolce. Certamente stride ascoltarla in mezzo a pezzi spesso senza arte né parte, che verranno dimenticati e accantonati per sempre nel giro di una mezza stagione, ma parimenti è piacevole il suo ingresso nel club delle canzoni senza tempo anche in Italia, Paese che tende troppo velocemente a scordare gruppi e autori il cui loro prodotto superi i 180 secondi.

Ebbene con la sua durata che sfiora i cinque minuti, due lunghi assoli di piano e un testo impegnato, diciamo che non contiene nessuna delle regole che la renderebbero traccia trainante in una playlist di successo moderna, dove la concezione della musica è simile a quella che può avere il direttore di un supermercato per la sua merce: la base è che si venda…

Non che nel lontano 1986 certe cose andassero molto meglio di adesso; vi era sempre un’acuta ricerca di successo immediato da parte delle case discografiche. Si dava forse agli artisti un po’ più di tempo per crescere prima di venire stritolati dal music business, anche se lo stesso Hornsby vedrà partire la sua carriera solo dopo un costante airplay radiofonico dei motivi più in vista della sua opera. A quel punto l’album, dopo alcuni mesi dall’uscita, viene remixato e ristampato con un paio di canzoni in arrangiamento differente. In aggiunta a ciò si utilizza un’altra furbizia: vengono curati maggiormente i dettagli estetici necessari per dare appetibilità al prodotto. L’iconica copertina color seppia che vede sovrimpressa una foto della band al Chesapeake Bay Bridge compare proprio in questo momento ed è accantonata la precedente immagine impressionista di Bruce che suona una fisarmonica. Il fatto che il disco prima della notorietà sia stato maldestramente inserito nella categoria new age enfatizza poi il lato pessimo delle mode e la manifesta incapacità di alcuni manager del settore: fin dagli anni settanta il pianista americano si dedica al rock, al blues, condivide pure uno spassionato amore per le atmosfere Motown e adora fare scorribande nella tradizione musicale delle jam band (attitudine confermata quando tra il ’90 e il ‘92 sarà touring member nei Grateful Dead) fino a fondare il progetto Bruce Hornsby and the Range (1984), da cui nasce lo stupefacente debutto di cui stiamo parlando.

David Mansfield - chitarra, mandolino e violino -, George Marinelli - chitarre acustiche, elettriche e cori -, Joe Puerta - basso e cori - e John Molo - batteria e percussioni - sono fondamentali nella buona riuscita del lavoro e il loro tocco consente a Hornsby di attraversare rock e pop collegandoli alla tradizione americana. Il cantato pulito e avvolgente di quest’ultimo, la sua maestria al piano, l’utilizzo a volte di un dulcimer oltre a un tappeto di sintetizzatori contribuisce a creare un’atmosfera sognante che fa da contorno a un robusto e ispirato songwriting, spesso in coppia con il fratello John.

Malinconia, solitudine, amori irraggiungibili o lontani e giornate vissute nella triste normalità di un lavoro sfibrante rappresentano i temi dei primi brani, dove la speranza che la situazione contingente migliori non viene mai meno e si costruiscono abilmente delicate metafore per descrivere la voglia di riscatto. Non mancano fremiti d’ansia tipici del sogno americano, tuttavia nelle liriche si cerca sempre di non individuare il benessere materiale come misura di felicità e successo.

Ritmiche e arrangiamenti spesso risentono di quanto espresso nei testi; così l’iniziale "On the Western Skyline" è un nostalgico pop-rock, dove tutta la band si muove a proprio agio, mentre "Every Little Kiss" comincia a far emergere le doti pianistiche del leader, caratterizzate da un andamento a tratti sincopato. Accostabile in parte a Elton John, il modo di suonare di Bruce Hornsby è in realtà meno caldo e morbido, le note che fuoriescono dal suo Baldwin concert grand piano – passerà allo Steinway & Sons solo dopo il ’95 – sono maggiormente squillanti, sembrano “appuntite”, abilmente strapazzate tanto da evidenziarsi notevolmente al di fuori del contesto sonoro già arricchito di sintetizzatori e in taluni casi assurgere a un vero e proprio ruolo da protagoniste.

Meglio soli che male accompagnati potrebbe essere il sottotitolo di questo motivo in cui il personaggio preferisce starsene in disparte a ricordare e sentire tristemente la mancanza di “ogni piccolo bacio” ricevuto da un’amata ormai molto lontano da lui. Un’altra particolarità della traccia è la citazione iniziale di Movement III, The Alcotts, dalla Piano Sonata No.2 di Charles Ives: l’idea contribuisce a palesare una sensazione collegabile all’onirico ed etereo, che però presto evapora e svanisce nel resto dell’architettura sonora della composizione, ora perfettamente in sintonia con la situazione vissuta e raccontata.

 

“You don’t know what you got till you lose it all again

Listen to the mandolin rain

Listen to the music on the lake

Listen to my heart break every time she runs away

Listen to the banjo wind

A sad song drifting low

Listen to the tears roll

Down my face as she turns to go.”

“Non sei a conoscenza di ciò che possiedi finché non lo perdi tutto di nuovo. Ascolta la pioggia (che risuona come un) mandolino/ascolta la musica sul lago/ascolta il mio cuore spezzarsi ogni volta che lei corre via/ ascolta il vento (che risuona come un) banjo/ una canzone triste che va lentamente alla deriva/Ascolta le lacrime rotolare sul mio viso mentre lei si volta e se ne va”.

 

"Mandolin Rain" è uno dei vertici dell’opera, una ballata avvolgente, resa commovente dall’interpretazione vocale dell’artista nato in Virginia, che ha creato una melodia struggente, impreziosita dai virtuosismi alle tastiere e da quel mandolino tanto caro da essere inserito nel titolo, e qui magistralmente suonato da Mansfield, sorprendente nel fare gorgheggiare lo strumento. Ebbene la metafora che associa i fenomeni atmosferici proprio agli strumenti musicali è davvero azzeccata: pioggia e vento disperdono l’amore, una “lei” se ne va, ma sembra quasi un arrivederci piuttosto che un addio, anche se si arriverà all’abbandono definitivo. Ciò che non delude mai e allevia il dolore è un’altra “lei”, più spirituale, la musica, e il suo ascolto ha un potere salvifico.

Un’altra caratteristica presente nella raccolta è l’attenta e continua descrizione dei luoghi con alta componente autobiografica visto che l’autore è di Williamsburg, un piccolo paesino a un passo dall’insenatura di Chesapeake. La baia con i suoi paesaggi pittoreschi è fonte di ispirazione per un gradevole rockettone, "The Long Race", in cui compare la similitudine tra l’alta e bassa marea e i vari “su e giù” che si vivono nelle relazioni sentimentali, mentre l’allegra "Down the Road Tonight", con Huey Lewis special guest all’armonica e ai cori, nasconde un testo legato a un posto in fondo nella strada, dove ogni sera si esercita il – cosiddetto – mestiere più antico del mondo.

Un interessante riff di violino abbinato a una chitarra elettrica non aiutano a far decollare "The Wild Frontier", invece "The River Runs Low" scivola piacevolmente via nel fascino e nella magia delle dita di Hornsby che fanno uscire dal suo piano ancora una volta note malinconiche, evocando tristezza per separazione e lontananza. Il tema dell’ingiustizia e della distruzione che dovrebbero spingere l’uomo a modificare il proprio comportamento si denotano anche nella finale "Red Plains", dove la bellezza dell’armonia sonora attutisce la tragedia.

“Ho scritto la canzone "The Way It Is" perché volevo spingere la gente a prendere una posizione forte sui diritti civili in questo paese”.

Ne abbiamo parlato all’inizio e non può che essere degna chiusura il brano capolavoro che dà pure il titolo all’album. Perfettamente collocato a metà delle nove composizioni, "The Way It Is" è il fiore all’occhiello della tracklist, arriva nel momento perfetto dopo quattro motivi azzeccati, permette di raggiungere il climax del lavoro prima di approcciarsi alla restante parte del programma, ovviamente in discesa per intensità, ma mai deludente e tutto ciò permette di focalizzarsi su questo pezzo unico, che caratterizzerà tutta la pregevole carriera dell’autore americano, il quale avrà ancora molte frecce nel suo arco e ci regalerà altri momenti di grande valore come il vivace anche se un poco discontinuo Spirit Trail (1998), il romantico Halcyon Days con i compagni di tour Noisemakers (2004) e il sorprendente Absolute Zero (2019).

 

“That’s just the way it is, some things will never change…”

Chi non ha cantato o almeno fischiettato questo ritornello negli ultimi trentacinque anni? Un motivo che ha subito parecchi campionamenti e svariate cover, ma che permane indissolubile nella testa insieme al suo ideatore e a quel piano formidabile.

E’ vero, questo è il modo in cui vanno solitamente le cose, caro Bruce, gli ultimi rimangono sempre gli ultimi, ma la speranza è che, grazie anche alla tua canzone, prima o poi alcune situazioni appunto cambino, e non debbano più esistere su questa terra povertà e discriminazioni razziali.