Scrivere una recensione di un disco del genere vorrebbe dire innanzitutto interrogarsi in merito al suo significato. O al senso stesso della sua esistenza, se preferite. “The Worm’s Heart” infatti non è il nuovo disco degli Shins (sarebbe stato un po’ prestino sinceramente) bensì una sorta di restyling di “Heartworms”, il disco che ne aveva segnato il ritorno in studio dopo cinque anni di silenzio.
Era stato un bel disco, fresco e pieno di belle canzoni, suonato con quella carica di positività che James Mercer sembrava un po’ avere perso dopo i primi, folgoranti lavori. C’erano state le solite lamentele da parte dei fan di vecchia data ma in generale c’era stato un accordo generale tra pubblico e critica sul fatto che si fosse trattato di un buon ritorno, del prodotto ideale per riprendere alla grande una carriera che pareva avviata prima del tempo sul viale del tramonto.
Ragion per cui adesso ci sarebbe da domandarsi cosa sia scattato nella testa della band del New Mexico per mettersi a riarrangiare e a riregistrare da capo un album che pareva così ben riuscito. Personalmente lo ignoro. Non ho visto il comunicato stampa vero e proprio e da quello che ho letto non mi pare sia venuto fuori granché.
Ma è poi davvero necessario saperlo? Probabilmente no. “The Worm’s Heart” rappresenta semplicemente un altro sguardo su quelle canzoni e ci immerge in pieno all’interno del processo creativo di Mercer; più in generale, come ha giustamente sottolineato Pitchfork nella sua recensione, ci mette di fronte ad una domanda importante: che cosa vuol dire, davvero, scrivere canzoni? O meglio: da che cosa realmente è composta una canzone?
Perché se è vero che i giri di accordi, le melodie vocali, certi nuclei tematici, possono essere identificativi di un’identità, è altrettanto vero che il vestito con cui poi si decide di ricoprire quegli elementi, non è un semplice orpello decorativo.
Realizzare una versione “flipped” dell’album, per usare l’espressione giusta indicata da loro, significa in pratica rovesciare le canzoni: quelle veloci sono diventate lente, quelle lente più veloci. Allargando un po’ il discorso (perché non ha funzionato sempre in maniera così schematica) potremmo dire che laddove si era lavorato per sottrazione, qui si sia giocato ad aggiungere e viceversa. Ne è risultata semplicemente un’altra versione di quel disco, speculare alla prima anche come tracklist, visto che è stata messa totalmente a rovescio.
E di sorprese ce ne sono state tante: a cominciare dalle versioni quasi “galleggianti” e oniriche di “Name for You”e “Painting a Hole”, che da aperture scintillanti sono state ricollocate nel ruolo di chiusura riflessiva. Oppure il Country acido e indiavolato di “Mildenhall”, o al capolavoro “Fantasy Island” che acquista qui una più autentica dimensione da inno Pop. O “Half a Million”, dal ritmo quasi reggae, meno trascinante dell’originale ma sempre colorata e divertentissima. Per non parlare poi della title track, che è diventata una lenta e sinuosa marcia a suon di Synth. Oppure “Rubber Ballz”, che in questa nuova veste acquista ancora di più quel tocco di romanticismo a la Mc Cartney.
Difficile dire quale dei due album sia il migliore: probabilmente, considerato l’impatto dei pezzi e la loro disposizione all’interno della tracklist, sarebbe più onesto concludere che “Heartworms” sia il più appetibile, essendo più compatto e di facile presa. “The Worm’s Heart” è più riflessivo e meno immediato, oltre a vantare soluzioni di arrangiamento che non sono quelle che per prime verrebbero in mente quando si pensa a brani del genere. Diciamo che è un approccio più sofisticato ed elaborato ad un Indie Rock come quello degli Shins, normalmente più furbo ed ammiccante.
“È un disco utile?” Potrebbe magari chiedere qualcuno di voi. Anche qui, la risposta non può essere banale. Non lo consiglierei di certo a chi volesse iniziare con loro: per quello scopo basta e avanza l’esordio “Oh, Inverted World”, visto che è già diventato un classico nel suo genere.
Eppure, l’altro giorno ho fatto un esperimento: ho messo i due dischi uno di fila all’altro, canzone per canzone, a cominciare da “Name for You” nella sua versione originale e subito dopo quella “flippata”; avanti così di brano in brano fino all’ultima “The Fear”. Ne è venuta fuori una playlist da un’ora e venti che ho ascoltato d’un fiato con la massima soddisfazione. Non si tratta di un doppione, se proprio ve lo state chiedendo e neppure di chicche da completisti. È bella musica, esattamente come quella che è uscita l’anno scorso. Quindi io una chance gliela darei. Ogni tanto c’è bisogno di una bella uscita di questo tipo: potrebbe servire a ricordarci che una bella canzone è una bella canzone, non importa in che modo venga presentata.