I Tv On The Radio sono stati i veri precursori di quel poliedrico stile indie electro/pop/rock che oggi ci suona così familiare. Un primato merito del loro eclettismo fuori del comune, a sua volta frutto principalmente dell’incontro tra tre talentuosissimi artisti (Dave Sitek, Kyp Malone e Tunde Adebimpe) senza nulla togliere alla sezione ritmica, il compianto bassista/polistrumentista Gerard Smith, scomparso nel 2011, e il batterista Jaleel Bunton.
Non c’è testimonianza più adatta a descrivere il loro approccio e il modo in cui la band newyorkese (di Brooklyn) ha fatto tesoro di esperienze anche agli antipodi tra di loro - blues, post-punk, dance, soul, indie-rock e funk - di questa versione live di “Bela Lugosi’d Dead” dei Bauhaus eseguita con Peter Murphy e i Nine Inch Nails. Cose che, appunto, a nessuno verrebbe mai in mente di mettere insieme e che invece solo un modo di intendere la musica realmente fluido e open è in grado di concepire.
Ed è un peccato che, dopo l’uscita dell’album Seeds del 2014, l’esperienza dei TVOTR si sia messa in stand-by, modalità pronta a riattivarsi in circostanze eccezionali (come i vent’anni di Desperate Youth, Blood Thirsty Babes) ma, nel lungo periodo, a tutti gli effetti rinviata a data da destinarsi.
Un peccato perché mai come la decade successiva alla loro eclissi artistica - gli anni che abbiamo la sfortuna di vivere da comparse oggi - meriterebbe di essere sonorizzata da un collettivo di intellettuali così versatili, arguti e intelligenti come loro, un’entità artistica in cui il meglio della musica black e quella bianca coesistono per generare bellezza, nella splendida cornice di uno dei quartieri da sempre più all’avanguardia del pianeta.
Da questo punto di vista, un incipit celebrativo dei TV On The Radio risulta doveroso per un disco solista di Tunde Adebimpe. Non certo perché lui, da solo, non possa ritagliarsi una sua dignità - non dimentichiamo le sue collaborazioni con artisti del calibro di Massive Attack e Tinariwen e i suoi cameo cinematografici. Il punto è che quando si beneficia di un timbro così particolare e riconoscibile come il suo - la prima volta che ho ascoltato “Staring At The Sun”, era il 2004, senza sapere di chi si trattasse ho frainteso il brano addirittura per un inedito di Peter Gabriel - credo risulti impossibile non ripercorrere il passato, non tanto per fare paragoni ma per riconoscere il giusto merito.
Per questo non ci sarebbe nulla di male a sostenere che Thee Black Boltz potrebbe essere tranquillamente il settimo album della sua band di origine, se non risaltassero l’assenza delle iconiche armonizzazioni in falsetto di Kyp Malone e certe geniali produzioni destrutturanti di Dave Sitek. Una considerazione calzante - vi sfido a sostenere il contrario - ma che risulterebbe riduttiva al cospetto di un ottimo disco come questo.
La genesi stessa di Thee Black Boltz, una sorta di traslitterazione di “The black bolts”, i fulmini neri, meriterebbe una riflessione a sé. Dopo un periodo cupissimo per Tunde Adebimpe, durante il quale esperienze personali come la pausa artistica della band, il lutto per la perdita dell’adorata sorella e l’isolamento da pandemia hanno gettato il cantante negli abissi della depressione, l’impeto di mettersi in gioco lavorando su vecchio materiale è stato stroncato sul nascere dal furto di svariati hard disk con spunti e demo che custodiva nel garage.
Una tragica fatalità, in grado di scoraggiare il più temerario dei musicisti e indurre chiunque a cercare rifugio nell’autocommiserazione: è il destino che si mette di traverso per impedire che io riprenda a fare musica. Ma siamo in piena resilienza, e la caparbietà ha avuto la meglio. Scovato un archivio, ancora precedente, di idee rese su nastri realizzati con un registratore multipista a cassette - non c’è nulla di più evocativo del concetto di vintage, ai tempi dell’AI, di cose come il caro vecchio Tascam PortaOne - Tunde Adebimpe si è messo al lavoro partendo proprio da lì. Ancora il destino, ma questa volta con le sembianze di chi tratteggia la strada migliore per tornare a galla, grazie al ricongiungimento con le radici creative.
La produzione di Wilder Zoby (collaboratore di lunga data di Run The Jewels) ha chiuso il cerchio, conferendo profondità e coerenza a materiale grezzo ed eterogeneo con una produzione ad hoc e intuizioni sonore che spaziano dalla pedal steel liquida di "God Knows" alle sonorità atonali e asettiche dell’insonorizzazione audiovisiva.
In Thee Black Boltz i testi oscillano tra la chiusura per l'elaborazione della perdita al suo apparente opposto, la ricerca dell’esposizione emotiva, rivelando una poetica che oscilla tra lo sconforto esistenziale e una rabbiosa speranza, tra fragilità e resistenza. Un disorientamento in cui ha giocato un ruolo decisivo l’improvvisa ed estemporanea (ce lo auguriamo in tanti) condizione di solitudine artistica, soprattutto a valle di un’esperienza così marcata, identitaria e totalizzante come quella dei TV On The Radio.
Ma se nella band l’alchimia collettiva e l’apporto di personalità ingombranti offriva un contrappunto alle intuizioni individuali, la paura del vuoto ha comportato un approccio autonomo. Si è sempre soli nei momenti più difficili. Le undici tracce del disco suonano più vulnerabili ma, sotto il profilo della fruibilità, trasmettono un indubbio senso di libertà. Le pause, i groove, le transizioni sussurrate diventano parte della narrazione, restituendo un senso di umanità imperfetta ma vera.
Thee Black Boltz è un disco che, come tutti gli album a cui Adebimpe ha prestato la sua straordinaria voce solista, risulta non facilissimo e che non nasconde la presunzione di sottrarsi a un consenso immediato. Semmai è un lavoro destinato a convincere con il tempo, singolo dopo singolo, e pensato per trasmettere la sua autenticità. Una confessione privata e genuina condivisa al pubblico dei fan storici e non, e a chiunque abbia percepito i TV On The Radio come un fattore decisivo di svolta musicale a cui non è stato interamente riconosciuto il giusto valore e la reale portata di rottura. Ora è Tunde Adebimpe che torna a parlare, momentaneamente solo, ma più che mai necessario.