Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
REVIEWSLE RECENSIONI
10/04/2019
Gary Clark jr.
This Land
Con i suoi 72 minuti e con la marea di idee e stili utilizzati, “This Land” è senza ombra di dubbio l’album più ambizioso al quale Gary Clark jr. abbia lavorato finora.

Con tutta la buona volontà e il senso civico del mondo, non dev’essere facile inghiottire il rospo e porgere l’altra guancia quando il tuo vicino di casa non crede che tu possa permetterti la tenuta nella quale vivi e ti esorta a levare le tende solamente perché sei di colore. Non sappiamo se Gary Clark jr. abbia risposto per le rime in tempo reale al vicino razzista, ma sappiamo che il sentimento di indignazione che è montato dentro di lui ha fatto da propellente per scrivere “This Land”, la title track con cui il chitarrista texano ha deciso di aprire il suo terzo album in studio, dove, su una sequenza di accordi Blues e diversi richiami alla celebre “This Land is Your Land” di Woody Guthrie, non le manda certamente a dire: «Fuck you, I’m America’s son/This is where I come from».

Prodotto da Gary Clark jr. assieme a Jacob Sciba e suonato da un power trio composto dallo stesso Gary con Mike Elizondo (eclettico produttore già al lavoro con Mastodon, Avenged Sevenfold, Eminem, Maroon 5 e Fiona Apple) al basso e Brennen Temple (sodale di Eric Burdon, Robben Ford e Lizz Wright) alla batteria, This Land è sicuramente l’album più ambizioso del chitarrista texano, quello dove ha cercato di convogliare in una volta sola tutte le influenze e le contaminazioni che da sempre contraddistinguono la sua musica. Non è un segreto che la croce e allo stesso tempo la delizia della discografia di Gary sia il fatto che i suoi album in studio soffrano il confronto con i suoi live – difetto, questo, a cui il bluesman di Austin, come Grateful Dead, Phish e Dave Matthews Band prima di lui, ha ovviato alternando una release in studio con una dal vivo – ma forse, dopo i deludenti (solo dal punto di vista della produzione, sia chiaro) due album precedenti – un Blak and Blu reso troppo patinato da Rob Cavallo e un The Story of Sonny Boy Slim pesantemente influenzato dall’Hip-Hop tanto da sembrare un disco apocrifo dei The Roots – con This Land Gary Clark jr. sembra aver trovato finalmente la quadra, mischiando il sound sporco e saturo del suo Blues chitarristico con inserti di R&B (“Don’t Wait Til Tomorrow”), Reggae britannico (in “Feeling Like a Million” sembra di sentire i Clash), Punkabilly (in “Gotta Get Into Something”, invece, aleggia lo spirito di un Chuck Berry sotto anfetamine), Funky/Soul (“Got to Get Up”), Country/Blues (“Dirty Dishes Blues”) e gli inevitabili tributi a Prince (“Pearl Cadillac”), Marvin Gaye (“Feed the Babies”), Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan.

A due anni dall’inizio dell’amministrazione Trump e a tre dalla creazione dello slogan «Make America Great Again», in un clima nel quale i diritti civili e la segregazione razziale sono tornati prepotentemente al centro del dibattito politico americano, alla stregua di Childish Gambino (“This is America”) e Beyoncé (“Formation”), anche Gary Clark jr. si espone politicamente e dice la sua. This Land, però, non va visto come un album “pesante” dove politica e critica sociale la fanno da padroni (a parte la title track e “Feed the Babies”, infatti, non ci sono altre canzoni esplicitamente politiche), ma nel loro insieme le 15 canzoni (più due bonus track) che lo compongono creano un affresco più vasto della somma della varie parti, descrivendo in maniera credibile lo stato d’animo della comunità afroamericana (e non solo) in questo 2019.

Con i suoi 72 minuti e con la marea di idee e stili utilizzati, This Land è senza ombra di dubbio l’album più ambizioso al quale Gary Clark jr. abbia lavorato finora. E nonostante i continui richiami a un tipo di musica “antica” come il Blues, il Soul e il Rock, che da più parti sembrano essere considerati ormai degni solo di una teca museale, presi in costante ostaggio da una pletora di puristi, This Land fa capire invece che, opportunamente aggiornati e “sporcati”, questi vecchi suoni alla fine dei conti sono quelli più adatti per raccontare la contemporaneità.