La storia dei Durry l’avevamo raccontata poco meno di due anni fa, quando era uscito il loro disco di debutto Suburban Legend: Austin Durry suonava nei Coyote Kid e sarebbe dovuto partire per un nuovo tour che però è stato cancellato a causa della pandemia. Tornato a casa dai suoi genitori, in un sobborgo di Minneapolis, ha ritrovato sua sorella Taryn, di sette anni più giovane. Bloccati a casa, un po’ per scherzo, un po’ per noia, hanno iniziato a fare musica insieme. “Who’s Laughing Now?”, il singolo buttato fuori senza crederci più di tanto, è diventato virale in men che non si dica, proiettando i due fratelli a un livello di popolarità del tutto insperato.
Da uno scantinato allo stardom nel giro di pochi giorni: una storia che potrebbe essere raccontata in un film. Se non fosse, però, che quel film si è scoperto che fa schifo. Le storie di successo, dei self made man improbabili che raggiungono traguardi prestigiosi partendo dal nulla, superando mille difficoltà, esistono senza dubbio nel mondo reale ma è colpa di Hollywood se siamo arrivati a ritenerle più frequenti di quanto effettivamente siano.
I Durry, dicevamo, il loro personale film lo hanno girato, ma il risultato non ha soddisfatto le aspettative. È successo infatti che Suburban Legend, al netto dell’hype dei singoli e delle ottime recensioni, è passato quasi totalmente inosservato. Oddio, in tour ci sono andati, hanno raccolto qualche buon risultato, non sono più degli sconosciuti e hanno ancora un’etichetta con cui potere incidere un secondo lavoro. Eppure l’annunciata esplosione commerciale non c’è stata, il loro nome è rimasto appannaggio quasi esclusivo di addetti ai lavori e nerd dell’Indie Rock, e neppure le entrate sono state sufficienti a smarcarli da quanto facevano prima: sono dovuti tornare nella loro vecchia casa e, seppure al momento riescano a vivere di musica a tempo pieno, pur con le comprensibili difficoltà, sono ritornati gli spettri del dover ritornare a fare lavori noiosi e poco retribuiti, come già cantavano in “Coming of Age”: “IDK I Just Work Here”, con il suo esilarante video, è un modo per esorcizzare queste paure e, allo stesso tempo, un omaggio a tutte quelle persone che non possono permettersi una scelta alternativa.
I fratelli Durry, comunque, ci riprovano col secondo disco. Che, occorre dirlo subito, conferma le sensazioni positive del precedente e mette in mostra nuovamente un livello di scrittura da potere ambire agli stadi senza troppi problemi. Il punto è sempre quello, infatti: perché loro no e altri sì? Cosa ha impedito loro di ottenere un successo che, data la caratura dei brani, sembrava la cosa più scontata del mondo? Dovremmo ormai avere imparato che non ci sono risposte e accontentarci di un disco che, anche se di nuovo non se ne accorgesse nessuno, rimarrebbe comunque bellissimo.
Lavorare col produttore Phil Odom ha donato ai nostri una consapevolezza più matura dei propri mezzi e ha permesso loro di lavorare in analogico, dando spessore ai suoni e arricchendo le composizioni di numerosi dettagli. Il risultato è un album più lucido e meglio rifinito, che suona più potente e che veste le canzoni per renderle funzionali a quella dimensione mainstream a cui ambiscono.
“Bully” funziona benissimo in veste di opener, è probabilmente il brano più potente che abbiano mai composto, ma sa anche essere straordinariamente melodica nel ritornello, un talento che i Durry hanno sempre avuto e che sembrano ora avere perfezionato. Il testo è un’invettiva neanche troppo seria ai vari haters che l’esplosione virale dei primi singoli ha fisiologicamente attirato, e al contempo una disamina divertente su come, alla fin fine, virtuale e reale rimangano due dimensioni ben distinte, seppur non sia sempre facile comprenderlo.
“Monopoly Money” è un altro brano tiratissimo dal chorus indovinato, e anche qui ironia e denuncia politica si mescolano in un testo che fotografa impietoso le crescenti disparità di una società che sembra esclusivamente votata al profitto.
La title track gioca sull’autobiografia e inanella l’ennesima serie di melodie vincenti, un brano che ai tempi di MTV si sarebbe guadagnato l’heavy rotation senza troppi complimenti.
Si prosegue così, ogni pezzo una potenziale hit, con “Porcupine” che tocca le corde del Power Pop, “More Dumb” costruita sull’alternanza tra una strofa appoggiata sulle tastiere ed un ritornello esplosivo, ad alto tasso emozionale, ed una “Start a Band” intrisa di Punk e di spirito DIY, un altro divertente racconto di questi due anni di professionismo (“Dropped out of school ‘cause we’re gonna make it big/And now I’m going on tour, and I’m living in the van/I’m falling apart, living off beef sticks and Pop-Tarts/I guess that’s the way every good story starts”).
Rispetto al lavoro precedente, This Movie Sucks sviluppa maggiormente il lato più soft della formazione, che anche quando smorza i toni riesce a far rimanere alto il livello: ne fa fede “Polaroid”, forse eccessivamente patinata nelle intenzioni, ma clamorosa per intensità e ispirazione, una Pop song da manuale sull’illusione che un attimo di felicità autentica possa resistere per sempre solo perché fermato da una fotografia. “The Long Goodbye” si muove più o meno sulla stessa falsariga, una ballata Folk al sapore del Midwest, per certi versi inattesa ma interpretata benissimo; un altro momento in cui la riflessione si fa più seria ed affiora la consapevolezza che il distacco costituisce l’autentica dimensione della vita (“And I know that it hurts and we’re barely getting by/But I swear that it’s worth it/To wring out every bitter drop of life/From the day we were born/’Til the day that we die/It’s all just a long goodbye”).
In un disco senza filler, dove ogni canzone è un potenziale singolo, ci si può permettere di lasciare in fondo due degli episodi migliori: “Good Grief”, che gira attorno ad un riff contagioso ed esplode in un ritornello che invita ad un pogo furibondo; “Slug Bug”, in chiusura di scaletta, è aperta da un’armonica molto springsteeniana per poi sfociare nell’ennesima sfuriata anthemica, da cantare a squarciagola.
Vediamo se si avrà il coraggio di ignorare anche questo.