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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
29/08/2022
Jethro Tull
This Was
La macchina del tempo ci fa tornare nel 1968, per rivivere la storia del debutto di un gruppo leggendario. This Was è l’album d’esordio per i Jethro Tull, che immediatamente si rivelano una band di grande brillantezza e personalità, capace di suonare un rock aspro, ben agganciato al blues. Un disco particolare -l’unico con il chitarrista Mick Abrahams-, che si distingue nel vasto repertorio di Anderson e soci.

Ripensandoci bene, la copertina dell’opera prima dei Jethro Tull incarna l’opposto dei miti dell’epoca: nella Swinging London della seconda metà degli anni sessanta furoreggiavano personaggi ribelli e sbruffoni come i Rolling Stones e gli Who. Cosa dire di quattro finti vecchietti con uno sguardo che li fa sembrare capitati lì per caso?

“Non eravamo belli, ma Ian aveva la capacità di sconcertare e incuriosire al tempo stesso le persone. Mi ricordo i nostri primi concerti, fu lì che decise di salire sul palco con il cappotto che indossava ogni giorno. Questi gesti contribuirono a darci un’identità, facendoci uscire dall’anonimato”, racconta l’epico bassista Glenn Cornick, membro fondatore, presente nel gruppo fino al 1970, ricordando il difficile inizio di carriera, appena giunti da Blackpool nella capitale. Certamente anche l’idea di inserire il flauto e riuscire con esso a creare melodie collegabili al rock e al blues risulta geniale e originale. Ormai fa parte dell’immaginario collettivo rievocare Anderson in piedi su una gamba sola che lo suona. Pare, però, che il burbero Mick Abraham, chitarrista e compositore di spessore, uomo dalle tante qualità, ma pure con un carattere orribile, non fosse in sintonia con la scelta del (futuro) leader. Il genere interpretato mal si accoppiava, secondo Abraham, con tale strumento; in effetti la sua veloce dipartita dalla band, dopo il primo disco, e la virata verso folk e progressive, porteranno a una chiara distinzione tra This Was e i successivi lavori.

 

Questo debutto, proprio per le particolarità enunciate poco sopra, si può considerare singolare per i Jethro Tull e anche per lo scenario del periodo, in cui chi si avvicinava alla Musica del Diavolo lo faceva vedendolo come una missione. John Mayall e i Fleetwood Mac si dedicano, infatti, con devozione ai maestri americani, mentre i “Ragazzi di Blackpoolconcepiscono una sorta di blues urbano, più acustico, che gode della vena compositiva di Anderson e dei guizzi di Abraham, e il primo non esita, in alcuni pezzi, a intrufolarsi nella jazz fusion.

Riascoltare l’opener "My Sunday Feeling" è un tuffo al cuore, con quel riff coinvolgente, la batteria a tratti sincopata di Clive Bunker e le divagazioni “flautistiche” del folletto, fino al “solo” magistrale di chitarra. “Potrebbe qualcuno raccontarmi dove ho appoggiato la testa la scorsa notte? Davvero, non ne ho memoria. Con ancora una sigaretta, però, ecco che potrei ricordarmi…”, canta Ian Anderson, rivisitando la classica domenica post sbornia che tanti hanno vissuto, ma ciò che colpisce è la spiccata capacità di pungere, di graffiare in profondità già presente nelle composizioni, frutto della convivenza, a volte tumultuosa, tra blues e ricerca sonora, che sfocerà appunto in seguito in un nuovo percorso musicale. Così ecco la tradizione di "Some Day The Sun Won’t Shine" e "It’s Breaking Me Up" - brani che narrano con amarezza e ironia la fine di un rapporto sentimentale - contro la sperimentazione della caustica "Beggar’s Farm".

 

“Ho soffiato, sbuffato e sbuffato e alla fine ho tirato fuori una o due note deboli. Ho rafforzato il suono fiacco cantando la nota all'unisono e così è nato il primo marchio di fabbrica dei Jethro Tull. Ma, in realtà, avevo già utilizzato il metodo dello scat-singing mentre suonavo la chitarra qualche anno prima, e pure con un piccolo, semplice tin whistle”.

 

Come flautista il versatile frontman di origini scozzesi è un autodidatta. Nell’estate del 1967 baratta la sua fidata Fender Strat appartenuta a Lemmy dei futuri Motorhead per un gioioso e brillante flauto traverso. I primi mesi del 1968 risultano fondamentali per il miglioramento della propria tecnica, ispirato da uno dei re dello strumento, l’incredibile Roland Kirk, esimio padre fondatore di un nuovo approccio nell’uso dei fiati, e persino in grado di suonare tre sassofoni per volta. La rilettura della sua "Serenade to a Cuckoo" - seguita in tracklist dall’altro strumentale "Dharma for One", in cui compare la leggendaria claghorn, costruita con porzioni di sassofono, trombetta giocattolo e flauto di bambù - rappresenta uno dei vertici del disco e sposta per un momento la bussola verso territori jazz, incarnando perfettamente lo spirito di ricerca e la curiosità, sempre in evoluzione. Infatti proprio il titolo This Was, letteralmente “Era questo”, sottolinea la temporaneità del sound e lo stile fissato nell’LP, che, appena pubblicato, secondo Anderson, apparteneva già al passato: da qui l’idea di vestirsi da vecchi.

E a proposito di passato, pochi mesi dopo le registrazioni tenutesi tra il 13 giugno e il 23 agosto 1968, Mick Abrahams è già ai saluti. Abbandona il gruppo, rimanendo legato alla storia dei Jethro grazie alla bellezza di tale esordio e alle perle chitarristiche lasciate sui solchi del vinile. La profetica "Move on Alone" è tutta farina del suo sacco dal punto di vista compositivo, inoltre si cimenta al canto e strimpella una stramba nove corde. Tra l’altro, a testimoniare la genuinità e la crudezza del progetto, è uno dei pochi brani, escludendo la registrazione delle parti vocali, a subire un certo quantitativo di sovraincisioni. I fiati arrangiati da David Palmer contribuiscono a creare un’atmosfera a metà strada fra il giocoso e misterioso, alleggerendo la tristezza del testo, sommessa accettazione della solitudine. Anche "Cat’s Squirrel", un traditional interpretato nel 1961 da Doctor Ross and the Orbits e reso celebre un lustro dopo dai Cream, gode della finezza dei fraseggi di Abrahams, prima dell’emozione di un altro pezzo da novanta in scaletta, la pregiata "A Song for Jeffrey", omaggio all’amico e compagno d’avventure Jeffrey Hammond, che inizialmente sceglie di non far parte del sodalizio per dedicarsi agli studi d’arte.

 

Un riff di basso di Cornick potenziato dal flauto squillante di Anderson introduce questo blues psichedelico, corroborato dalla chitarra sanguigna di Abraham, una slide prepotente che contraddistingue la canzone insieme alle tonitruanti percussioni di Bunker. "A Song for Jeffrey" è probabilmente il motivo all’interno dell’opera che eleva e glorifica allo stesso modo i componenti del quartetto, valicando pure i confini delle dodici battute per fare ancora un’incursione nel mondo jazz. Pure la breve conclusiva "Round", peraltro, risulta magistrale dal punto di vista della contaminazione, con mescolanza di stili e generi che diventeranno un trademark futuro e permanente del prodotto Jethro Tull. Qui il frontman si esibisce anche al piano, dimostrando le doti di polistrumentista - in This Was i suoi ruggiti con l’armonica sono un altro elemento determinante - in un tenue quadretto elettroacustico strumentale che fa da ponte ai futuri gorgheggi folk progressive dei progetti successivi.

 

La storia di questa incredibile band arriva fino ai nostri giorni con numerosi e sbalorditivi cambi di line-up, ma da sempre la figura mitica di Ian Anderson rimane in bella evidenza. Non male per un personaggio che ha dichiarato di essersi concentrato sul flauto dopo aver ascoltato Eric Clapton e aver capito l’impossibilità di avvicinarsi a lui come chitarrista. Sacrificio, studio, passione e voglia di emergere l’hanno reso unico e resistente, sempre con una marcia in più. L’unica volta che si è arreso davanti ai manager discografici non è stato per una disquisizione tecnico musicale, ma per il nome da dare al gruppo: dopo svariati tentativi, a febbraio 1968 un agente con il pallino per la storia li battezza Jethro Tull, come un agronomo inglese del Settecento, pioniere che con le sue invenzioni getta le basi per sviluppare l’agricoltura moderna. Idea alquanto originale, proprio come loro. E Il resto, come si diceva, è storia che giunge sino ad oggi. Un esempio di longevità, forza e coerenza che solo la Musica può offrire.