Thruppi è un disco controcorrente. Non si piega, non compiace, non rincorre. Rifiuta le logiche del mercato, i dischi gonfi d’apparenza, costruiti per sembrare più di quel che sono. È un album intimo, sospeso, fuori dal tempo e da ogni schema, che si prende i suoi spazi e li abita con lentezza, tra pieni e vuoti che si rincorrono. Centrifugo e centripeto allo stesso tempo, scava dentro (nelle pieghe dell’anima) ma si apre anche verso l’esterno, verso la società, con uno sguardo lucido, visionario.
La scrittura è cinema: cruda, diretta, a tratti lacerante, ma sempre necessaria. Le parole non cercano rifugio: mordono, tagliano, lasciano segni nella carne. Il disco si adagia con naturalezza su tappeti di synth avvolgenti, voci sovrapposte, gridate, sussurrate, chitarre che ringhiano, giri di piano che affiorano e scompaiono. Thruppi non seduce né corteggia: si mostra per quello che è. E va dritto al cuore.
La pietra focaia che ha acceso il fuoco del disco è stato l’incontro, grazie al suggerimento di un amico, tra Giovanni Truppi e Thru Collected, il collettivo artistico che dal 2021 si è affermato anche come etichetta discografica e che fa della sperimentazione e della creazione condivisa la propria direzione, superando i confini di genere e forma. Truppi entra in contatto con questa realtà fluida e multidisciplinare con cui condivide in primis le sue radici: Napoli, cuore pulsante e contraddittorio di un immaginario comune.
Dalla fusione tra le due visioni artistiche, poliedriche e complementari, nascono fra italiano e napoletano sette tracce capaci di scandagliare l’umanità nei suoi snodi più fragili e universali: l’adolescenza che si spegne, il disincanto di una generazione, la morte, la memoria, l'amore che cambia forma, la solitudine e la ricerca di sé e di un posto nel mondo. Un disco ibrido post-contemporaneo che svela e nasconde risonanze di cantautorato, spoken word e rap, intrecciando melodie delicate e sonorità indie rock ed elettroniche, fino ad attraversare momenti noise, punk, distorti e dissonanti.
Con “Buianotte” la sensazione è quella di immergersi in una ballata intima e malinconica, che racconta la lenta dissolvenza di una relazione consumata fino all’osso, dove entrambi i partner hanno bruciato tutto. Il meglio, il peggio, e quello che resta: "I nostri sangui si uniscono. Dentro le pance delle zanzare. E i nostri guai si raccontano. A chi digerisce le cose amare".
Quando si precipita in un abisso di depressione e smarrimento, dove la luce perde ogni sfumatura e il mondo si fa un unico greve colore, “Nero” è un invito gentile e struggente a farsi trovare, a spalancarsi al dolore senza difese e a chiedere aiuto con quel filo di voce che si spezza, che non osa, ma che ancora resiste tenace, come un ultimo respiro nel silenzio: "Dammi una mano perché non so più chi sono. E non so neanche più chi ero. Stringimi forte perché vedo un mondo nero".
“Denti perfetti” ci conduce con amarezza al cuore di quell’ipocrisia borghese che si crogiola nella propria frivolezza e superficialità. È la borghesia della società che rifiuta di guardarsi dentro, incapace di spogliarsi dalle maschere di convenienza e paura. Incatenata ai suoi rituali vuoti, si aggrappa a rassicurazioni di facciata, mentre l’anima rimane inesplorata, nascosta dietro sorrisi perfetti e un’indifferenza che sa di condanna.
E se forse non è più possibile “Tornare indietro”, per diventare grandi in "un gioco pesante in cui vengono mosse pedine gigantesche", a volte bisogna tuffarsi senza esitazione nel mare sfaccettato e burrascoso di un mondo che ci sovrasta, ritrovando le radici nel caoticità del lungomare di una “Napoli città di morte”. È un’attrazione pericolosa, un abisso che rischia di dissolvere l’anima, un cammino su una strada dissestata e impervia, tra ombre e crepe di luce. Ma è proprio nei vicoli della città partenopea che si accende un tenue barlume di speranza - incerto ma vivo. Perché anche quando tutto sembra averci abbandonato, quando il peso della solitudine diventa quasi insopportabile, in fondo, "nun rimane sulo ‘int’a nu munno che more senza speranza". C’è sempre la possibilità che "po venarrà nu juorno nuovo".
“Vecchie Fiamme” ci racconta quanto la sfida per crescere può essere faticosa e amara, quando spesso "un bel cazzo di niente la vita ti ha lasciato e tu pensi di stare vincendo la gara con tuo padre facendo quello che lui non è riuscito a fare e solo più tardi ti accorgi che anche adesso che è morto è così che continua a comandarti". Il peso delle aspettative, la fame per il futuro, le sue paure mute, si allungano come un’ombra sottile, un comando silenzioso che consuma. Mai abbastanza, mai il tempo giusto. La lotta diventa gabbia di ricordi sfuggenti, traguardi rubati al tempo, illusioni, disillusioni, speranza infrante. E allora ci si chiede quando le ferite aperte che ancora sgorgano sangue riusciranno a cicatrizzarsi? Forse un giorno. Forse mai.
Quando il dolore è affrontare la fine, e il respiro si fa corto solo per riuscire a dimenticare, la settima e ultima traccia del disco, “Sir Pente”, ci spinge però a correre ancora - senza fiato, senza più aria nei polmoni, inesorabilmente - verso il cambiamento. A inseguire l’amore, i nostri valori di umanità, a fare quello che, anche se a volte fatichiamo a credere, continuiamo a fare ogni giorno, nel nostro piccolo: la differenza.
"L'amore si prova, nel senso che uno ci prova
E qualche volta provandoci qualche cosa trova"