Un tempo, ci si stupiva per la super prolificità di Joe Bonamassa, uno capace di sfornare un disco via l’altro, come se il tempo fosse sempre dalla sua parte. Oggi, dopo tanti anni di carriera, quella fecondità è diventata semplicemente un segno immediatamente distintivo, e non il solo. Quando il chitarrista di Utica si è affacciato al panorama musicale, la sua abilità tecnica fece sperticare la stampa in elogi sempre più convinti, come se fosse l’unica abilità riconducibile al talento di Bonamassa. Nell'ultimo decennio, tuttavia, il suo materiale originale, sempre più potente ed espressivo, ha preso il centro della scena, tanto che oggi, l’indubbia bravura come chitarrista è solo una parte della narrazione. Dopo l'eccezionale Redemption del 2018, che ha visto Bonamassa adottare un approccio da cantautore confessionale, continuando a trasformare il blues-rock in nuove forme vertiginose, Royal Tea dell'anno scorso, realizzato per onorare le leggende del blues britannico con cui è cresciuto, sanciva un’ulteriore passo avanti nella sua crescita artistica, ribadita, ora, da questo ennesimo e ottimo Time Clocks.
Grazie a una sana dose di sicurezza che lambisce spesso i confini della spavalderia, Bonamassa ha acquisito la capacità di trarre in inganno l’ascoltatore, dando delle indicazioni per percorrere una strada che, poi, si rivela quella sbagliata. Sebbene, infatti, la maggior parte delle canzoni di questo nuovo disco faccia riferimento sia al suo lavoro passato che a numerosi riferimenti di genere, proprio quando pensi che si sia invischiato in cliché e formule prevedibili, il chitarrista, con abile gioco di prestigio, mischia le carte in tavola con risultati sorprendenti.
"Notches", ad esempio, cita lo spavaldo riff di Clapton su "Had To Cry Today" dei Blind Faith, ma aggiunge contrappunti di sitar aprendo alla psichedelia, scatena un vibrante coro e pompa gagliardo sulla ritmica in una corsa a perdifiato. Un brano che riesce a fondere passato e presente, tradizione e originalità in un unicum avvincente.
In Time Clocks, Bonamassa si diverte a creare scenari lussureggianti, a sovrapporre generi e suoni, dimostrando il crescendo della sua maturità compositiva. La title track ne è un esempio cristallino: apre in modalità southern country dal mood malinconico e riflessivo, e poi, trascinata dal contrappunto di cori appassionati, si gonfia in un gospel da cantare a squarciagola, accendini alla mano.
Altrove, il blues-funk sinuoso di "Questions and Answers" lascia il posto a vaghi sentori mariachi, mentre la successiva e roboante "Curtain Call", fa pensare ai Led Zeppelin della metà degli anni '70 collocati, però, in una struttura più complessa, quasi progressive. Magico, poi, il connubio fra folk rinascimentale, cupezza soul e l’energia di un riff potentissimo di "The Loyal Kind", un azzardo che in mano ad altri poteva risultare un pasticcio e a cui, invece, Bonamassa riesce a dare un equilibrio e un’omogeneità eccezionali.
In un contesto di brani strutturati con intelligenza e mutevoli nelle forme, ci sono anche canzoni più immediate, come "The Heart That Never Waits" e "Hanging On A Loser", che scintillano grazie brillante mixaggio di Bob Clearmountain e conquistano al primo ascolto, trainati dagli uncinanti riff e da quel costante tocco gospel dovuto al perfetto flusso dei cori.
Insomma, Time Clocks potrebbe sembrare, appena messo sul piatto, il solito disco di Bonamassa, salvo poi mostrare diverse sfaccettature e una struttura tanto solida quanto complessa, quando l’ascolto viene approfondito. Un album che parla del tempo che scorre, della mortalità, ma anche dei periodi in cui il chitarrista faceva fatica a sbarcare il lunario e dei suoi rapporti non sempre idilliaci con l’industria discografica, e che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, di un musicista cresciuto anno dopo anno, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello del songwriting. Finchè mantieni questo livello, caro Joe, per quanto ci riguarda, puoi fare uscire anche un disco alla settimana.