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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
06/10/2025
Peter Green Splinter Group
Time Traders
Blues essenziale e misurato, come conviene alla tradizione british, ma con classe innata. Siamo a inizio secolo e finalmente ritroviamo un Peter Green in grande spolvero sia come cantante che chitarrista, merito indubbio dello Splinter Group.

Dopo aver proposto negli ultimi album la propria personale rivisitazione dell’intero repertorio di Robert Johnson, uno degli indiscussi padri della musica del diavolo, il mai troppo compianto Peter Green agli inizi del secolo torna a registrare ancora con lo Splinter Group. Da tempo, infatti, questa band è il supporto ideale alla sua chitarra, e, con il passare degli anni, risulta sempre più affidabile e credibile.

Nigel Watson è d’altronde un artista completo (bastino ad esempio alcune sue composizioni di gran livello quali “Shadow on My Door” e “Wild Dogs”, vero balsamo per gli amanti del genere) e in assoluta conoscenza del modo in cui dosare i suoi interventi con la sei corde sia solista, sia ritmica, e fungere da perfetto collante alle esternazioni dell’ex Fleetwood Mac, ispirato come non mai nella sua storica “Underway”, strumentale del 1969 ripreso in maniera magistrale con un ospite speciale, il geniale Snowy White.

La sezione ritmica, dal canto suo, copre alla perfezione tutti i buchi e costituisce un tappeto ideale sul quale innestare voce e chitarra. Larry Tolfree (batteria e percussioni), Pete Stroud (basso) e Roger Cotton (piano e Hammond organ) offrono tranquillità assoluta e Green si può rilassare dando il meglio di sé, accompagnato con eleganza spesso da fiati mai invasivi, tuttavia parte essenziale del progetto, capitanati dal trombonista Tim Riggins.

 

I blues di questo Time Traders sono soffici, quasi trattenuti, tipicamente british nella loro formulazione e in essi appare tutta la lezione del mitico Alexis Korner, a cui Peter è sempre stato molto legato. A volte il gruppo si lascia andare e deborda dolcemente nel jazz, quasi un dixieland di maniera, ad ogni modo sincero e molto sentito, come succede in “Downsize Blues (Repossess My Body)”, o ritorna in seno alla grande madre Africa (“Uganda Woman”), buttandosi anche nel pop rock psichedelico di “Down the Road of Temptation”, ma poi finisce sempre con il riprendere inevitabilmente quell’incedere blues quasi fintamente svogliato che si rianima subito, quando le chitarre decidono di lanciarsi in “solo” misurati, tuttavia efficacissimi.

Probabilmente Peter Green non è mai stato tanto creativo quanto in quegli anni, quasi a voler recuperare il terreno perduto alla ricerca di una stabilità psicologica che, subito dopo i grandi fasti dei Settanta, sembrava barcollare sempre più pericolosamente. Forse in questo lavoro non si arrampica più alla ricerca di suoni troppo sofisticati, ma la sensibilità bluesy rimane intatta, e lo dimostra ampiamente con una freschezza e diversità notevoli, a far da contraltare a quanto proposto in precedenza.

Inoltre, ancora a differenza di quel che succedeva nelle pubblicazioni antecedenti, le canzoni sono nella totalità frutto della creatività del gruppo (il trittico iniziale composto da “Until the Well Runs Dry”, “Real World” e “Running After You” è semplicemente da urlo) e, soprattutto, non ci sono cover di particolare richiamo. Non ce ne è bisogno, per merito dello Splinter Group, grazie al quale l’autore di “Black Magic Woman” torna il vecchio leone di una volta. Anche gli altri brani, da “Home” e “Time Keeps Slipping Away” a “Feeling Good” e “Lies” ne sono fulgido esempio e chiara dimostrazione di importante affiatamento.

 

Peter Green è stato uno dei più grandi chitarristi del secolo scorso, che negli anni Sessanta ha cambiato le coordinate del blues elettrico. Ha vissuto un’esistenza tormentata senza mai ricevere il giusto riscontro per le opere svolte, con una carriera fin dall’inizio folgorante, nei Bluesbreakers di John Mayall e poi come fondatore dei Fleetwood Mac, prima del lento declino fisico e psicologico, che comunque gli ha permesso, a sprazzi, come Time Traders certifica, di riprendersi la scena blues. Ecco uno dei tanti motivi per cui vale la pena riascoltare questo disco. Non ve ne pentirete, garantito!