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REVIEWSLE RECENSIONI
07/10/2018
Louis Cole
Time
Mia nonna soleva dirmi di non buttare via le cose che indossavo perché prima o poi sarebbero tornate di moda; saggio consiglio, in particolare da applicare a quegli oggetti tipo gli occhiali da sole o i cappellini che come una giostra ritornano sempre al punto di partenza.

Ma anche su altre cose che avreste voglia di gettare nel cassonetto, saggezza direbbe di fermarsi in tempo prima di compiere l’irreparabile. Nella musica, ad esempio, ho ascoltato strali ed inviti a disfarsi quanto prima dei sintetizzatori che ascoltavamo negli anni 80, ma vedi tu che trent’anni dopo, e come dicevamo sopra, il tempo ha fatto giustizia nel non disfarsi di cose che ritenevamo inutili e sorpassate.

Prendi il nuovo album di Louis Cole, ad esempio. Mai disco è più esplicativo di quanto detto: il nostro ha recepito il messaggio e se lo è adattato ai propri desiderata.

Arrivato al terzo album da solista dopo averne fatti uscire quattro come metà del duo Jazz rock umoristico Knower ed aver nel frattempo collaborato con Thundercat, questo Time è uno dei lavori più freschi e vari di questo scorcio di anno e i synth “comeliascoltavamoneglianniottanta” sono parte focale del progetto.

Si parte col botto, con un hard funk feroce da spararsi in cuffia fino a farsi sanguinare le orecchie, “Weird Part Of The Night” un inno visionario alla notte sotto un incalzante muro di synth. E questo non è che l’inizio: ti aspetti che si proceda nella frenesia ma come in un ottovolante che alterna salite a ripide discese, atterriamo placidi in una melodia incantevole e morbida nel mid-tempo di “When You’re Ugly”, groove e ancora synth a iosa con sorprendente coro angelico di fanciulle a sigillare il brano in conclusione.

Ma Louis Cole sa come giocare con i vostri sentimenti e come un moderno demiurgo in “Everytime” ci fa sprofondare in un abisso di malinconia e rimpianto che quasi non ne esci più e vorresti riascoltarla ma non fai in tempo che già “Phone” bussa alla porta e ti avvolge con il suo groove ammaliante.

E Louis Cole è un maestro nel creare melodie che ti si attaccano addosso come delle mignatte e te le infila anche nella più improbabile delle canzoni: “Real Life” ha il furore del future funk (qualsiasi cosa voglia dire) ma quando meno te lo aspetti ecco il break melodico che cambia senso al brano e credetemi o no, ci sta pure bene; non contento, nella stessa canzone spunta in chiusura Brad Mehldau con un assolo di piano jazz. Non pago il nostro dà saggio della sua bravura nella scrittura e negli arrangiamenti con uno dei picchi del lavoro, quella “Tunnels In The Air” che vede la partecipazione di Thundercat e ancora quel rifrullare di synth funk e di suoni sospesi in una bolla spazio temporale. Una piccola pausa da crooner malinconico in “Last Time You Went Away” e si riparte belli che massicci in “Freaky Times”, altro funkettone hard senza compromessi, preludio alla ballad “After The Load Is Brown” con le prime strofe come le avrebbe cantate Prince (eh no, non è una bestemmia) per poi andar di melodia in stile EW&F nel refrain.

L’alternarsi di funk e pop sofisticato è la caratteristica principale di tutto il lavoro con una netta propensione del secondo nella parte finale.

Fuochi d’artificio pop quindi con “A Little Bit More Time” canzone sul tempo che sfugge e l’altra bellissima “Trying Not To Die” che nonostante l’apparente vaporosità del brano affronta il tema della depressione, tanto che mentre la ascoltavo mi veniva da pensare che una canzone così (ascoltate quel Beach Boys touch) l’avrebbe potuta scrivere Brian Wilson, se non fosse stato infognato con gli psicofarmaci e con il dottor Landy.

Che altro dirvi, le ultime due canzoni, dopo tutto questo ben di Dio, sono quasi dei riempitivi, carucce anzichenò ma che nulla aggiungono a quanto ascoltato prima. Ne sentiremo parlare ancora del signor Cole, statene certi, come potete essere sicuri che chi vi ha raccontato che i synth “comeliascoltavamoneglianniottanta” fossero tutta plastica e monnezza, è di sicuro in malafede.