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REVIEWSLE RECENSIONI
10/10/2017
Steven Wilson
To The Bone
Nonostante i riferimenti musicali rimandino alla seconda metà degli anni Ottanta, To the Bone è inevitabilmente un album figlio del 2017 e Wilson non si risparmia nel voler raccontare la realtà che lo circonda

Lo scorso aprile, quando Steven Wilson ha annunciato di aver cambiato casa discografica e ha concesso a Spotify i tasselli mancanti del suo catalogo, in molti tra gli irriducibili del Progressive hanno tremato, temendo di perdere uno degli ultimi paladini del genere. Ovviamente Wilson, 50 anni, di cui 30 spesi a incidere, produrre e mixare centinaia di album, sa benissimo quello che fa. Da buon nerd del Rock si ricorda come molti abbiano abboccato all’amo del Prog grazie anche a delle vere e proprie esche: canzoni all’apparenza semplici, che in realtà nascondono – con l’inganno di una melodia di facile presa – un grande lavoro di scrittura.

Come più volte dichiarato in fase di promozione, con To the Bone Wilson si è posto l’obiettivo di inserirsi nel solco della tradizione del Pop britannico degli anni Ottanta e di album come So di Peter Gabriel, Hounds of Love di Kate Bush, The Seeds of Love dei Tears for Fears e The Colour of Spring dei Talk Talk. Tutti lavori nati quando una generazione di musicisti formatasi durante l’esplosione sperimentale del Rock anni Settanta si è messa in testa di fare dischi accessibili e con più livelli di lettura: da un lato i ritornelli cantabili, dall’altro i testi ricercati e gli arrangiamenti stratificati.

Nonostante i riferimenti musicali rimandino alla seconda metà degli anni Ottanta, To the Bone è inevitabilmente un album figlio del 2017 e Wilson non si risparmia nel voler raccontare la realtà che lo circonda: la crisi della politica, le fake news, i social network, l’immigrazione e, nella disturbante “People Who Eat Darkness”, il terrorismo. Funzionali a questa volontà di raccontare il presente sono una scrittura che non vuole essere per nulla rassicurante – è il caso dei due singoli “Song of I” e “The Same Asylum as Before”, dove l’atmosfera si fa inquietante – e una produzione ricca di sfumature che ricorda da vicino quella di John Leckie per The Bends dei Radiohead.

Delle undici canzoni che compongono la scaletta dell’album, probabilmente la migliore del lotto è la title track, che può vantare un bel testo di Andy Partridge degli XTC e un incipit che ha più di un debito con “Time” dei Pink Floyd. Ma anche “Refuge”, con un grande assolo di chitarra di Paul Stacey e un’interessante coda di synth, non è da meno. Ottimo è pure l’intervento della cantante israeliana Nynet Tayeb in “Parahia”, una canzone splendida che ha come unico difetto quello di essere forse un po’ troppo debitrice del modello originale, il duetto tra Peter Gabriel e Kate Bush in “Don’t Give Up”.

L’album, suonato praticamente in solitaria da Wilson – la band stellare che lo accompagna dal vivo qui è inutilizzata –, canzone dopo canzone procede verso l’oscurità, che si fa minacciosa nella magmatica “Detonation”, unico episodio in cui Wilson permette agli strumenti di sfogarsi e divagare in una lunga jam che trova la sua naturale conclusione nella pace piena di speranza di “Song of Unborn”. Con il pianoforte e il coro in primo piano, la canzone è un finale di album forse un po’ troppo New Age, ma tutto sommato consono con i modelli di riferimento: dopotutto, non termina così anche Hounds of Love di Kate Bush?

Missione compiuta, dunque, per Steven Wilson? Sì e no, verrebbe da dire. Sì, perché da un lato in To the Bone l’attenzione maniacale alla produzione e agli arrangiamenti c’è tutta – anche se manca quel tipo di prestazione musicale da urlo che un po’ ci si aspetta in un disco del genere. No, perché nonostante tutto il lavoro di scrittura fatto da Wilson, a To the Bone manca una cosa fondamentale: il singolo spaccaclassifica, la “Sledgehammer” di turno che sappia fare breccia nell’ascoltatore casuale per non lasciarlo mai più. Infatti, nonostante le migliori intenzioni, non sembra che il singolo “Permanating”, un intrigante mix tra il miglior Todd Rundgren e la ELO, sia in grado di svolgere appieno il compito.
Probabilmente un mezzo gradino sotto The Raven That Refused to Sing e Hand. Cannot. Erase, To the Bone è comunque uno tra i migliori lavori di Steve Wilson. A questo punto, se il risultato è questo, chi sente più il bisogno dei Porcupine Tree?