Cerca

Banner 1
logo
Banner 2
SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
31/08/2022
Live Report
TOdays, 26-28 agosto 2022
Anche quest’anno il TOdays non ha deluso e si è confermato uno degli eventi musicali più belli che abbiamo in Italia. Tre giorni bellissimi nell'area estiva dello Spazio 211, per unire passato e presente, nel tentativo di fornire una fotografia il più fedele possibile dello stato attuale della scena.

Dopo le difficoltà organizzative ma anche le enormi soddisfazioni della scorsa edizione, il TOdays festival torna a pieno regime, nonostante i problemi tecnici che hanno costretto a rinunciare ai concerti pomeridiani nella suggestiva location di Parco Peccei (lo ha spiegato il direttore artistico Gianluca Gozzi nell’intervista che vi abbiamo proposto qualche mese fa).

Bello finalmente ritrovarsi sotto il palco senza limitazioni di sorta, che fossero mascherine o sedie, bello anche poter godere di una line up finalmente al cento per cento internazionale, come sempre ben dosata tra vecchie glorie e promettenti act della nuova generazione. Sono stati tre giorni bellissimi, il cui resoconto sommario vi riporto qui. Si tratta solo di ciò che è accaduto nell’area estiva dello Spazio211, sede dei concerti principali. Il resto, gli incontri del TOlab e i dj set all’ex INCET, non sono purtroppo riuscito a seguirli.  

 

 

Venerdì 26 agosto

Eli Smart non fa rimpiangere la defezione improvvisa dei Geese. Per quanto avessi personalmente voglia di tutt’altro tipo di sonorità, l’artista hawaiano da tempo trapiantato a Liverpool, mette in piedi un set gradevole e coinvolgente e conquista in poco tempo tutti i presenti. Attitudine aperta e affabile, suscita applausi col suo discreto italiano (ha spiegato che il padre è cresciuto in Veneto) e ha con sé una band di amici dei tempi dell’università che appare decisamente rodata. Non ha ancora fuori un disco ma può già vantare un EP prodotto da Gianluca Buccellati (produttore di Arlo Parks) e una manciata di singoli che fanno ben sperare per il futuro. Il suo è un set coloratissimo, pieno di vibe positive, dove le suggestioni Soul e Lounge si mischiano con influenze provenienti dalla sua terra d’origine. La scrittura è incisiva quanto basta (sono stati presentati anche due brani inediti dal potenziale notevole) e la performance ben bilanciata tra melodia e robustezza dei suoni. Tanta concretezza davvero, se le cose andranno nel verso giusto ne sentiremo parlare ancora. Non poteva esserci modo migliore per iniziare.

 

La proposta di Hurray For the Riff Raff non mi ha mai interessato più di tanto ma devo ammettere che dal vivo è tutta un’altra cosa. Certo, alla fin fine Alynda Segarra non si discosta molto da quell’Alt Folk americano che, in tempi recenti, è stato interpretato magnificamente da diverse autrici (da Soccer Mommy a Julia Jacklin, passando per Waxahachie, forse quella che stilisticamente si avvicina di più all’artista del Bronx. Compatta e potente, ma a tratti anche efficace nel creare atmosfere dilatate e quasi lisergiche (vedi la lunga “Nightqueen” nel finale) la band di Segarra l’ha accompagnata in un viaggio di una cinquantina di minuti che si è mosso quasi esclusivamente sui territori dell’ultimo Life on Earth, le cui canzoni sul palco appaiono decisamente rivitalizzate. Bella voce, piglio deciso, una splendida “The Body Electric” a fungere da highlight di un concerto intensissimo e di una bellezza rara. Rivelazione.

 

Il rapporto dei Black Country, New Road col nostro paese è stato fino ad ora dei più sfortunati. I problemi del cantante Isaac Wood avevano fatto saltare più di una data già programmata, l’ultima delle quali proprio qui a Torino, nell’edizione dello scorso anno. Con l’abbandono di Wood i membri restanti hanno preso la decisione coraggiosa di onorare lo stesso gli impegni estivi del 2022, portando in giro del materiale totalmente inedito, le parti vocali divise tra la bassista Tyler Hyde e la tastierista May Kershaw, con qualche sporadica incursione del sassofonista Lewis Evans. E finalmente anche l’Italia ce l’ha fatta a vedere un loro concerto.

Per me è la seconda volta, dopo quella di giugno del Primavera Sound. Qui la cornice è senza dubbio più agevole, visto che è già buio e che il palco risulta meno dispersivo. La perdita di un elemento così particolare e caratterizzante ha un po’ “standardizzato” il suono del gruppo, che sembra essersi mosso verso un Folk bucolico denso di elementi progressivi. Tuttavia, gli interventi del Sax a dialogare con violino e tastiera, il modo in cui fanno esplodere i pezzi senza preavviso e una certa mancanza di prevedibilità nelle strutture e in certe soluzioni, assomigliano molto alla vecchia incarnazione della band.

Quel che è sicuro è che il nuovo materiale è solido e che la timidezza estrema con cui lo suonano non fa altro che accentuare la loro passione e sincerità. Il silenzio teso del pubblico e gli applausi scroscianti e quasi commossi tra un brano e l’altro, dimostrano che qualcosa è accaduto. Vuoi vedere che da un potenziale disastro hanno trovato il modo di svoltare la carriera?

 

Tash Sultana era particolarmente attesa, il successo di un brano come “Jungle” le ha aperto una carriera al momento pienamente decollata, rafforzata recentemente da un disco credibile ed ispirato come Terra Firma. Da noi è passata diverse volte ma per un motivo o per l’altro me l’ero sempre persa, ero ansioso di rimediare. Sulla sua performance in realtà ho maturato un giudizio ambivalente: da una parte il talento è innegabile, portentosa dal punto di vista vocale, multistrumentista eclettica che in un’ora e venti è passata dalla chitarra solista al basso, dal sassofono alla tromba, dai sintetizzatori alla batteria, con addirittura un piccolo inserto di flauto. Sul palco è una vera funambola, salta da una postazione all’altra e costruisce i suoi pezzi mediante loop station, aggiungendo uno strato dopo l’altro, la componente elettronica molto più presente che in studio, con l’RnB a sfociare nella Dance più sfrenata, senza soluzione di continuità.

L’aspetto negativo è che tutto questo, nonostante abbia regalato sprazzi di assoluta bellezza, alla lunga è risultato un po’ troppo fine a se stesso, come se l’elemento virtuosistico soppiantasse la mera esecuzione dei brani, che poi sono quelli per cui la amiamo così tanto. Non a caso le parti strumentali sono state predominanti e diversi episodi (tra cui proprio la hit “Jungle”, con cui ha chiuso) solamente accennate, presto affogate nel mare magnum degli sfoghi solisti.

Tutto questo quando poi l’artista di Melbourne una band vera e propria ce l’ha, e anche di livello bello alto. Peccato che sia stata utilizzata solo per venti minuti, talmente intensi da lasciare l’amaro in bocca per quello che avrebbe potuto essere se fossero stati con lei anche solo per tre quarti del tempo.

Al di là della domanda (anche a livello economico) sull’utilità di portarsi dietro tre musicisti bravissimi per farli poi suonare così poco, l’impressione è che Tash Sultana voglia per il momento essere ricordata per la sua bravura tecnica piuttosto che per la sua capacità di scrivere grandi canzoni. È comunque agli inizi, le possibilità di una svolta ci sono eccome.

 

 

Sabato 27 agosto

Quando arrivo sul posto il secondo giorno, la prima cosa che vedo sono gli Squid comodamente seduti ad un tavolino, intenti, sembrerebbe, a preparare la scaletta. Tempo una mezz’ora ed eccoli sul palco, vestiti esattamente come prima, vale a dire nella maniera più casuale possibile. Sembrano un gruppo di turisti in vacanza, poi iniziano a suonare e capisci che non si scherza affatto. Volumi pazzeschi (niente di paragonabile con quanto sentito il giorno prima da nessuno degli artisti), tiro da paura, il loro set è un concentrato di potenza e dinamicità impressionante, le ritmiche sghembe e le geometrie spigolose a metà tra Post Punk e Math Rock, il lavoro di Synth a supportare quello delle chitarre, il tutto tenuto assieme dal drumming indiavolato di Ollie Judge, che si occupa anche delle parti vocali con maestria non indifferente.

I brani di Bright Green Field, debutto molto lodato dalla critica lo scorso anno, si alternano a composizioni nuove, tra un brano e l’altro lunghe code di feedback e rumori vari, suggestioni Noise che enfatizzano ancora di più le atmosfere dissonanti che i cinque di Brighton riescono a creare. Sono sessanta minuti densi e senza respiro, il pubblico, che già in gran parte è qui per loro, gradisce e gli ultimi venti minuti sono caratterizzati da pogo e moshpit abbondanti, con la polvere che si solleva da terra che sembra partecipare alla festa collettiva. Devo dire la verità, li attendevo da tempo (per loro stessi era la prima volta nel nostro paese) e mi sono piaciuti decisamente di più che su disco. Devastanti.

 

Subito dopo è il turno delle Los Bitchos. La band di Serra Petale, londinese di base ma un insieme di provenienze che si muove tra Uruguay, Svezia e Australia, era già venuta dalle nostre parti in primavera ma me l’ero persa. Piacevoli su disco (il loro esordio Let the Festivities Begin! è uscito a febbraio) è sul palco che sprigionano tutta la loro irrefrenabile energia. La proposta in sé è semplice, un insieme di influenze che vanno dalla Cumbia, al Surf, dal Rock alla Psichedelia, ma in fin dei conti i loro brani tutti strumentali vivono di ritmi ballabili e fraseggi di chitarra dall’alto tasso melodico. Le percussioni svolgono un ruolo fondamentale nel tenere alta la tensione e la cantabilità delle melodie invita alla danza e al divertimento. Anche loro suonano un’ora (i set di oggi sono più lunghi di quelli di ieri, per fortuna) e si capisce che, per quanto poi il disco sia importante per farsi conoscere, si tratta di una band che acquisisce il proprio senso solo in sede live. Bravissime e simpatiche, le quattro Los Bitchos (ma c’era anche anche un uomo alla seconda chitarra) hanno senza dubbio un futuro brillante davanti.

 

La vera sorpresa di questa seconda serata sono i Molchat Doma. Sapevo già che questa singolare band bielorussa godeva di consensi importanti, soprattutto grazie ad un disco come Monument, il loro terzo, che ha diffuso il loro nome anche fuori dai loro patri confini. In Italia ci erano già venuti (se non sbaglio una data a Parma subito prima del Covid) e quest’estate hanno girato diversi festival europei, che non fossero gli ultimi arrivati si era capito. Quello che però non mi sarei assolutamente aspettato è la risposta del pubblico alla loro esibizione torinese.

Fin dalle prime note entusiasmo e applausi scroscianti, cori “Molchat Doma! Molchat Doma!” scanditi tra un pezzo e l’altro, addirittura singalong su certi ritornelli (cantano in russo, quindi non era esattamente scontato), pogo e ammassamento generale sotto il palco, anche quando, durante l’ultima mezz’ora, la pioggia, minaccia costante delle ultime ore, si è decisa purtroppo a funestare la venue. Non se n’è andato praticamente nessuno, i lampi nel cielo e il clima improvvisamente autunnale a fare da perfetta cornice alla gelida Coldwave del terzetto.

Concerto bellissimo, la voce baritonale di Egor Škutko, le essenziali linee di chitarra di Roman Komogorcev, il basso pulsante di Pavel Kozlov, la batteria elettronica a riempire gli spazi, i Synth, a volte suonati, a volte in base, componente essenziale di una proposta che, per quanto derivativa e per molti versi datata, ha in sé un fascino magnetico che ha saputo conquistare anche le giovani generazioni.

 

Purtroppo non ne vuole sapere di smettere di piovere e questo non può non penalizzare l’esibizione di FKJ. L’headliner della giornata gode comunque di consensi tra il pubblico ma evidentemente la maggior parte era lì per gli act precedenti perché, più la pioggia diveniva insistente, più la gente prendeva la via di casa, lasciando solo un piccolo nucleo di irriducibili sotto il palco.

Da parte mia, la musica di Vincent Fenton non mi ha mai preso, e nonostante l’indubbia capacità di allestire uno show con tutti i crismi, sezione ritmica dinamica e addirittura un trio d’archi ad arricchire il lavoro di tastiera, gli occasionali interventi del sax ed una chitarra senza dubbio ispirata, non riesco a non abbandonarmi alla noia, per un Pop elettronico dalle sporadiche influenze Soul, che mi sembra però troppo soft e privo di mordente. Resisto una quarantina di minuti, poi inizia a piovere veramente forte e decido di prendere la via del ritorno. Peccato, anche se il bilancio della giornata rimane lo stesso altamente positivo.

 

 

Domenica 28 agosto

Per quanto ci fossero motivi di interesse nei giorni precedenti, è evidente che quest’anno è la domenica a prendersi gran parte delle attenzioni: con due vecchie glorie come Arab Strap e Primal Scream, un act giovane come i DIIV e delle giovani promesse come gli Yard Act, il bill dell’atto conclusivo del festival costituisce forse la rappresentazione migliore di quello che gli organizzatori del TOdays hanno sempre cercato di fare, vale a dire unire passato e presente, nel tentativo di fornire una fotografia il più fedele possibile dello stato attuale della scena.

L’unica cosa abbastanza inspiegabile (se non, forse, con i dati di vendita, ma anche qui non è che ci siano evidenze lampanti) è il running order delle esibizioni, perché una band come gli Arab Strap meriterebbe senza dubbio una posizione più alta. Poco male, hanno a disposizione 55 minuti e li sfruttano tutti per mostrare come lo splendido come back dello scorso anno non sia stato un episodio casuale.

As Day Gets Dark è stato un ritorno di proporzioni gigantesche, che ha stupito tutti per come un gruppo attivo da quasi trent’anni potesse ancora avere così tante cose da dire. Questa sera hanno in scaletta quattro brani da quel disco, a dimostrazione che queste canzoni possono tenere testa ai vecchi classici che i fan si aspetterebbero di sentire. Perle come “The Turning of Our Bones” e “Here Comes Comus” si vanno così ad affiancare a “Fucking Little Bastards” e “Don’t Ask Me To Dance”, in una performance intensa e musicalmente impeccabile, con Aidan Moffat in forma smagliante, che ha sorseggiato gin tonic (a giudicare dal colore di quel che aveva nel bicchiere ma è molto probabile) e ha cantato le sue storie di cruda realtà quotidiana con un aplomb invidiabile.

Accanto a lui Malcolm Middleton, a sciorinare gli arpeggi immortali che hanno reso questa una delle band più importanti degli ultimi decenni, sorprendentemente giovanile nel portamento, come se il tempo non fosse mai davvero passato. Accanto a loro, una formazione precisa e ben rodata, che ha donato a questi brani la ricchezza che meritano (“Girls of Summer” e “Blackness” da questo punto di vista sono state meravigliose).

Ci si potrebbe lamentare che non abbiano sparato cartucce pesanti come “Packs of Three” o “The Shy Retirer” ma sarebbe pura pedanteria. Ecco, se c’è un modo per vincere la noia di una routine fine a se stessa che sembra essere il destino di molte vecchie glorie, gli scozzesi questa sera ce l’hanno mostrato. Vogliamo un altro disco e un altro tour ma con calma, quando avrete voglia. Noi siamo qui.

 

I DIIV non ero ancora riuscito a vederli, tra il Covid e l’annullamento di una data milanese qualche anno fa, durante il tour di Is The Is Are. Zachary Cole Smith sembra essersi ripulito e a guardarlo ora appare in forma smagliante, sereno e comunicativo, stessa cosa si può dire per i suoi compagni di band, nonostante il look da trapper scappati di casa sfoggiato da Andrew Bailey e Colin Caulfield. Siamo all’ultima data del tour, Deceiver è stato finalmente portato in giro come meritava e il set che ci offrono stasera è di quelli da ricordare.

Precisi e raffinati, non hanno il muro di suono di altri gruppi di area Shoegaze, giocano molto di più sui fraseggi e la New Wave fa più volte capolino dai loro brani. Viaggiano a mille e il tiro è impeccabile, hanno dalla loro un repertorio di altissimo livello per cui è molto difficile sbagliare. Nei sessanta minuti che stanno sul palco spaziano tra tutti i loro tre dischi, la dolcezza di “Like Before You Were Born” e “Between Tides” ad affiancarsi alla potenza di “Blackenship” e “Under the Sun”, e ai ritmi ipnotici e vagamente psichedelici di “Take Your Time” e “Horsehead”, senza dimenticare il classico della prima ora “Doused”. Prestazione decisamente maiuscola, un gruppo che quando viaggia a briglie sciolte ha veramente pochi rivali. Il pubblico se ne accorge, poga e salta per gran parte del tempo, a rendere ancora più speciale un’esibizione che credo ricorderemo a lungo.

 

Aspettavo tantissimo gli Yard Act, perché il loro debutto The Overload mi ha entusiasmato e perché, tra i numerosi figli di questa sorta di revival delle chitarre in chiave Post Punk, loro sono tra quelli più vari ed eclettici nelle influenze e nella costruzione dei brani. Dal vivo non deludono e anzi, mettono in mostra una dinamica e una precisione da veterani, segno che, perlomeno all’estero, le nuove generazioni sanno cosa vuol dire gavetta e duro lavoro (tutti questi giovani gruppi suonano già da paura, abbiamo avuto modo di accorgercene). Uno show che è anche molto divertente, complice un James Smith istrionico e simpaticissimo, che sciorina le sue liriche sarcastiche con un flow notevole, interagendo brillantemente col pubblico tra un brano e l’altro (peccato solo che il suo stretto accento di Leeds abbia reso incomprensibili parte delle battute). Per il resto, Sam Shjipstone si conferma un chitarrista bravissimo e versatile, Jay Russell un drummer essenziale ma a tratti fantasioso, musicalmente il concerto è impeccabile, con brani come “Dark Days”, “Rich”, “The Overload”, “The Incident”, “Dead Horse” e “Payday” a spaccare tutto. Da rivedere al più presto.

 

Non so da dove si sia diffusa la voce (confermata comunque anche dal sito del TOdays) che i Primal Scream avrebbero suonato interamente Screamadelica, fatto sta che l’attesa per lo show degli scozzesi era spasmodica esclusivamente per questo motivo (vero che era dal 2017 che non passavano da noi, ma vero anche che in un modo o nell’altro siamo riusciti tutti a vederli, nel corso degli anni). L’outfit di Bobbie Gillespie, giacca, maglietta e pantaloni decorati col tema dell’artwork del disco, sembravano lanciare un messaggio preciso ma quando una potente “Swastika Eyes” ha lasciato il posto ad una non troppo carica versione di “Skull X”, abbiamo capito che probabilmente non avremmo avuto quel che volevamo.

Il set è un concentrato di hit, pescate soprattutto dal repertorio rock della band e quand’anche non sia così (“Pills”, “Exterminator”), la veste sonora bene o male è quella. Line Up rodata, stabile nonostante cambi e avvicendamenti vari nel corso degli anni, il lavoro di Andrew Innes alla chitarra è sempre buono, stessa cosa si può dire per le tastiere di Martin Duffy, e anche la bassista Simone Butler, con loro ormai da una decina d’anni, fa il suo.

In generale è una buona performance, con Gillespie in buone condizioni vocali e gran trascinatore, anche se forse fa un po’ troppo il verso a Mick Jagger. Brodo a tratti eccessivamente allungato, tra code infinite per far battere le mani, e tutti quegli escamotage da dinosauri del rock che un po’ hanno annoiato, qualche esecuzione un po’ sottotono, ma nel complesso non è stato male.

Le cose migliori arrivano verso la fine, quando il quintetto prende velocità e scuote gli animi con una potente e dinamica “Jailbird”, una “Movin’ On Up” ispirata (finalmente qualcosa da “Screamadelica” si sono ricordati di farlo) e i due belli schiaffoni in faccia di “Country Girl” e “Rocks”.

Quando lasciano il palco non si capisce bene cosa sarebbe dovuto succedere, tra la musica in sottofondo che riparte, alcuni tecnici che iniziano a smontare, un altro che invece fa segno che hanno tempo ancora per una canzone. Dopo cinque minuti di riassetto, eccoli di nuovo, ad eseguire una “Loaded” che, tra cori e altre parti preregistrate, è risultata un po’ deludente, anche se ha svolto lo stesso il suo ruolo di chiusura della serata. Un bel concerto, forse più di mestiere che altro, ma d’altronde i Primal Scream da diverso tempo sono questo. Aspettiamo il prossimo disco perché comunque, tra alti e bassi, qualche perla ce l’hanno sempre regalata anche in tempi recenti.

 

 

Che dire dunque? Anche quest’anno il TOdays non ha deluso e si è confermato uno degli eventi musicali più belli che abbiamo in Italia. Da ammirare la capacità degli organizzatori di sfidare il pubblico, con bill che guardano a quello che c’è in giro e molto meno a quello che richiamerebbe più gente, il tutto all’interno di una vocazione a far vivere una zona di Torino che, per quanto periferica, offre diversi elementi di suggestione. La sfida è stata vinta? Non ho numeri ufficiali ma sembra che la risposta sia stata buona, nonostante ogni anno ci diciamo che sarebbe bello ci fosse stata più gente. È difficile organizzare concerti in Italia, ancora di più in questo periodo travagliato e denso di nubi incombenti. Detto questo, ancora una volta un plauso al TOdays per averci provato e per essere sempre qui, nonostante tutto. Ci si vede l’anno prossimo.

 

 

Photo Courtesy: Giorgia Tomatis