Nato a Chelmsford, nell’Essex, il 19 marzo del 1969, figlio di due vicari della Chiesa d’Inghilterra, Jeremy Thomas McRae Blackall inizia il suo percorso musicale cantando nel coro della parrocchia e dedicandosi allo studio della chitarra, con cui reinterpreta le canzoni dei suoi primi amori (Billy Bragg, Bob Dylan, U2).
Inizia, quindi, a comporre brani propri e milita in alcune band locali, fino a quando non incontra casualmente l'ingegnere del suono e produttore discografico Roger Bechirian, (Elvis Costello, Squeeze, Carlene Carter, The Undertones), di cui diventa amico e con cui inizia a collaborare. Bechirian contribuisce non poco a plasmare il sound acerbo di McRae, che in seguito, grazie ai buoni offici del produttore, ottiene un con la db Records di Dave Bates.
E’ il primo passo di una carriera ventennale e di un discografia di qualità, il cui primo capitolo, intitolato semplicemente Tom McRae, esce il 2 ottobre del 2000. Il disco, prodotto da Chris Hughes (quello di The Songs From The Big Chair dei Tears For Fear, per intenderci), vede la collaborazione in studio di numerosi musicisti (tra cui anche Howard Jones, che suona il piano in Untitled) e ottiene una candidatura al Mercury Music Prize.
L'esordio suscita consensi estremamente positivi da parte della stampa specializzata, ma resta (anche oggi) oggetto di culto per pochi appassionati. E non è difficile crederlo visto che l’album, nonostante sia in linea con un suono molto in voga in quel momento storico (si pensi a Damien Rice o Ben Christophers e all’esplosione del New Acoustic Movement), suona cupo, spigoloso, umbratile, poco incline a leggerezze o a melodie di facile presa. Le canzoni in scaletta rimandano alla tradizione (impossibile non citare un altro outsider come Nick Drake), l’ossatura delle composizioni è prevalentemente folk, anche se non mancano venature pop-rock, inserti di elettronica e frequenti arrangiamenti d’archi.
Il disco si apre con il fruscio di un vinile su cui si dipana la trama oscura e depressa di You Cut Her Hair, incubo rarefatto per piano, chitarra e un inquietante violoncello. E’ questa la cartina di tornasole per leggere il mood di un disco intenso e crepuscolare, così come evocato dalla bella foto in copertina.
Momenti scarni ed essenziali, come nella delicata 2nd Law o nella litania depressa per pianoforte e voce della già citata Untitled o ancora nella conclusiva I’m Scared Of Lightning, un minuto e venti per voce e chitarre di Drakeiana memoria. E ci sono momenti, invece, in cui gli arrangiamenti si fanno meno francescani e vanno a riempire spazi altrove lasciati vuoti. E’ il caso della ritmica ansiogena che attraversa A&B Song o del vento d’archi che sospinge la drammatica Language Of Fools. Tra gli highlights della scaletta meritano una citazione l’accorata Bloodless e il blues spazzolato della notturna e lacrimosa Sao Paulo Rain.
Un esordio folgorante e probabilmente il miglior capitolo di una discografia che si è sempre mantenuta a livelli qualitativi più che buoni. Tuttavia, queste canzoni tese al parossismo, che cercano la penombra o s’immergono nella grana livida di paesaggi autunnali e carichi di inquietanti presagi, costituiscono uno dei dischi inglesi più interessanti e riusciti della prima parte del nuovo millennio. Consigliato a tutte quelle anime malinconiche sempre in cerca di struggimenti.