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REVIEWSLE RECENSIONI
Tracks II: The Lost Albums
Bruce Springsteen
2025  (Columbia)
AMERICANA/FOLK/COUNTRY/SONGWRITERS ROCK
7/10
all REVIEWS
27/06/2025
Bruce Springsteen
Tracks II: The Lost Albums
Tracks II: The Lost Albums è stato pubblicato e Bruce Springsteen ha fatto capire per l’ennesima volta perché (nonostante tutte le critiche che è oggi sacrosanto rivolgergli) sia più o meno all’unanimità considerato come uno dei più grandi artisti della storia del rock. Un racconto album per album su nuovo cofanetto.

La possibile esistenza di un fantomatico Tracks II all’interno della vasta discografia “parallela” di Bruce Springsteen è stato un tema dibattuto tra fan e addetti ai lavori sin dall’uscita del primo volume di questa vasta retrospettiva di outtake, nell’ormai lontanissimo 1998. Pensate alla differenza di contesto storico: all’epoca l’artista del New Jersey era in procinto di tornare on the road con la E Street Band, dopo una pausa di dieci anni durante la quale aveva cercato di reinventarsi e di percorrere nuove strade, conseguendo risultati altalenanti ma senza dubbio rimanendo vivo e aperto a molteplici stimoli.

Al contrario, questo secondo volume della sua personale vault arriva in un periodo in cui il cammino artistico del nostro sembra essersi oramai avviato ad una inevitabile storicizzazione: al di là dei due dischi di inediti (Western Stars nel 2019 e Letter to You l’anno successivo) che peraltro hanno offerto pochi spunti, l’impressione generale è quella di un artista intento a celebrare se stesso (vedi soprattutto i live show trasformati in giganteschi karaoke zeppi di Greatest Hits) piuttosto che tentare di dire ancora qualche cosa di rilevante.

Tracks aveva peraltro offerto una prospettiva inedita sul repertorio di quei primi vent’anni, documentando ufficialmente lo straordinario livello di ispirazione del periodo ’78-’83, quando ogni singola canzone composta sarebbe potuta entrare nella scaletta definitiva di un disco, ma regalando spunti di notevole interesse anche per quanto riguarda la normalmente meno celebrata fase post Born in the Usa.

La situazione ora è radicalmente diversa: il materiale d’archivio associato alle Deluxe Edition di Darkness on the Edge of Town e The River aveva già fatto intuire che le composizioni veramente degne di essere riportate alla luce fossero esaurite. Un ipotetico seguito di Tracks è rimasto a lungo il sogno proibito dei fan più accaniti ma col passare degli anni le speranze che potesse trattarsi di un’uscita memorabile parevano dunque quasi del tutto sfumate.

 

Esauriamo subito la parte scomoda: l’operazione commerciale in sé è al limite del vergognoso. Un cofanetto comprendente 7 cd e un libro venduto a quasi 300 euro, per quanto lussuosa possa essere la confezione, si configura allo stesso livello di una rapina a mano armata. Davvero poco spiegabile una decisione del genere, anche rispetto alla media dei prodotti simili immessi negli ultimi anni sul mercato (il box set di Laura Nyro, per dirne una, costava poco meno ma conteneva il doppio della roba). Inutile stare qui a tirare in ballo la crisi del supporto fisico, il feticismo delle ristampe, lo sfruttamento del potere d’acquisto di quei pochi anziani che ancora possono permetterselo… siamo al cospetto di una truffa, ammettiamolo e passiamo ad altro.

Sul fronte della narrazione, anche qui mi pare si manchi un po’ di trasparenza: presentare questi 7 cd come altrettanti album fatti e finiti che all’ultimo momento non sono stati pubblicati, non credo corrisponda a verità. Alcune canzoni sono evidentemente presentate in formato demo o poco più, in certi casi la mancanza di coerenza del materiale è piuttosto evidente, per di più c’è la presenza di Ron Aniello come unico produttore, cosa che lascerebbe intendere che molti brani siano stati terminati prima della pubblicazione (cosa, peraltro, lasciata intendere dallo stesso Springsteen quando ha dichiarato: “Durante la pandemia ho finito tutto quello che c’era nel mio archivio”).

Al di là di questi indubbi elementi di criticità, la sostanza non manca: ci sono circa 80 brani, in questa release, e sebbene una buona parte di essi circolasse da tempo in formato bootleg, solo una decina erano stati effettivamente pubblicati in versioni alternative all’interno di altri dischi o raccolte. Questo per dire che non siamo di fronte ad un semplice riempitivo, i motivi di interesse ci sono davvero.

 

Sulla effettiva bontà di tutta questa roba, il discorso è decisamente più complesso: premetto che l’ascolto in blocco di 5 ore e mezza di musica non è operazione che possa essere espletata in breve tempo, neppure ricevendo tutto una decina di giorni prima dell’uscita, come accaduto a noi.

Impossibile dunque un’analisi esaustiva dei singoli dischi, si tratta indubbiamente di un prodotto che dovrà essere reso oggetto di una trattazione approfondita tra qualche mese ma sappiamo bene come sono i tempi del cosiddetto giornalismo specializzato: se è uscito adesso bisogna parlarne adesso, con buona pace della qualità dei contenuti prodotti.

Una cosa, comunque, possiamo affermarla con certezza: in questi Lost Albums non ci sono capolavori. C’entra sicuramente il periodo preso in esame: fatta eccezione per le outtake del 1983, che comunque rinforzano l’opinione secondo cui le cose migliori di quegli anni siano già state pubblicate, i restanti sei cd coprono la fase che parte dalla metà degli anni ’90 e arriva a ridosso di Letter to You. Non esattamente un periodo di grande ispirazione, dove la scrittura si era fatta meno ricercata e più ripetitiva, nonostante, almeno fino ad un certo punto, permanesse la volontà di muoversi all’interno di stilemi differenti. Ecco perché tutta questa vasta produzione, se analizzata nell’insieme, appare superflua: Springsteen stava senza dubbio “lavorando tutto il tempo”, come dichiarato nella presentazione del progetto, ma ciò non toglie che fosse ormai entrato in una fase non certo memorabile del proprio cammino.

Questo non vuol dire che Tracks II sia da buttare, anzi. Evidentemente si tratta di un prodotto ad uso esclusivo dei fan, perché non ci sono canzoni in grado di definire nuovamente una carriera. I fan, anche quelli meno oltranzisti, avranno però numerosi motivi d’interesse, dato che alcuni di questi lavori contengono materiale dello stesso livello, se non superiore, agli ultimi dischi pubblicati.

 

L.A. Garage Sessions ‘83 è una raccolta di canzoni registrate subito dopo la pubblicazione di Nebraska e con Born in the USA già in incubazione. Si tratta di una fase di transizione, perché dopo il Folk scarno e sofferente di quel disco, non c’era ancora una certezza su come continuare. In compagnia di Mike Batlan, l’ingegnere del suono con cui lavorava all’epoca, Springsteen registra una serie di brani suonando tutti gli strumenti e avvalendosi di una drum machine e di alcuni sintetizzatori.

La qualità e il livello di rifinitura sono da demotape, seppure ben curati, e sono la fotografia di un artista intento a sperimentare, dando un po’ più di aria al suo modello abituale di composizione acustica e nel contempo provando timide incursioni nel repertorio più rock. La scaletta è corposa (18 brani, si tratta del più lungo di questi dischi) e presenta take alternative di diversi titoli già noti e pubblicati altrove: oltre alla “Follow That Dream” rubata ad Elvis Presley ci sono anche “Johnny Bye Bye” (che rielabora uno spunto di Chuck Berry), “County Fair” (una gemma nascosta comparsa in precedenza nel bonus disc della raccolta Essential del 2003, un brano, questo sì, che avrebbe senza dubbio meritato l’inclusione in un disco vero e proprio), “Shut Out the Light” (inclusa in Tracks e suonata parecchio durante il tour del 1984-85) e persino una “My Hometown” ancora timida e rarefatta, un esempio perfetto di quello che avrebbe potuto essere Born in the USA senza la cura a base di testosterone che gli è stata somministrata: non sarebbero arrivati gli stadi, forse, ma avremmo avuto un capolavoro in più di cui godere.

Il resto del programma è molto interessante, anche se sono tutte canzoni che, a posteriori, possiamo dire abbia fatto bene a lasciare fuori. Non fatevi comunque scappare i brevi bozzetti di “Seven Tears” e “Fugitive’s Dream”, che risentono ancora dell’atmosfera da Gotico Americano dell’album precedente, oppure la magnifica elegia di “Richfield Whistle” (forse questa l’avremmo potuta anche ascoltare prima) o ancora “Unsatisfied Heart”, una delle più conosciute tra quelle che già circolavano su bootleg. (VOTO: 7,5)

 

Le Streets of Philadelphia Sessions provengono, come dice il titolo, dallo stesso contesto in cui nacque “Streets of Philadelphia”, scritta per il celebre film di Jonathan Demme con protagonista Tom Hanks, canzone che valse al suo autore il suo primo e finora unico Oscar. Si tratta di canzoni che si muovono su quella falsariga, composte a partire da differenti combinazioni di beat e caratterizzate da un’atmosfera intima e notturna. È uno Springsteen da qualche anno privo della E Street Band (Human Touch e Lucky Town erano già usciti), intento a navigare al di fuori della propria comfort zone, intento a fare a pezzi il cliché della rock star muscolosa che i tour precedenti avevano contribuito a cucirgli addosso. Senza dubbio oggi è più facile rivalutare quel periodo, anche e soprattutto alla luce di quel che è venuto dopo.

Al di là di questo, canzoni come “Blind Spot”, col suo incedere vagamente Soul, “Something in the Well”, (una sorta di anticipazione Dark di “The Ghost of Tom Joad”), l’eterea malinconia di “Between Heaven and Earth”, o il brio contagioso di “One Beautiful Morning”, sono sopra la media di quel che stava pubblicando in quegli anni. Si tratta davvero di un disco finito e rimasto nel cassetto? Non è dato saperlo ma se fosse uscito così, avrebbe magari spazzato via le delusioni per i due famigerati “album gemelli” del 1992. (VOTO: 6,5)

 

Faithless è stato definito come “la colonna sonora di un film mai uscito” ma non in senso metaforico: il film fu effettivamente commissionato a Springsteen, ma poi per non ben specificati problemi di budget, il progetto fu abbandonato. Siamo nella fase immediatamente successiva a Devils and Dust (quindi nel 2005): Bruce scrisse tutti i pezzi in appena due settimane, durante una vacanza in Arizona in compagnia della figlia Jessica.

Qui il suono è minimale, le atmosfere rarefatte, c’è quel senso di sospensione tipico del Western “spirituale” che il film in questione avrebbe dovuto essere. I brani cantati sono intervallati da strumentali (“My Master’s Hand” è presente in doppia versione) e ci sono episodi, come la title track, la pianistica e delicata “God Sent You”, i simil Gospel di “All God’s Children” e “Let Me Ride” (con tanto di coro) che godono di alti livelli d’ispirazioni. Scrittura ridotta all’osso, soluzioni al minimo ma è una fase in cui riusciva ancora ad incantare con pochi ingredienti ben selezionati: tra i migliori dischi della raccolta, senza alcun dubbio. (VOTO: 8)

 

Somewhere North of Nashville è anche il titolo di un brano di Western Stars e difatti lo ritroviamo, in versione leggermente differente, alla fine di questo quarto cd. Siamo nel 1995, Bruce sta lavorando a The Ghost of Tom Joad ma nello stesso tempo ha ingaggiato un ensemble di 15 elementi (tra cui figura la violinista Suzie Tyrell, che diverrà poi membro fisso della E Street Band della reunion) per registrare in presa diretta una serie di composizioni dalle esplicite influenze Country. Se alcuni di questi pezzi sono effettivamente poco più che standard (“Repo Man” e “Detail Man” le possiamo tranquillamente rubricare alla voce “esercizio di stile”) a livello musicale la resa è magnifica, con la lap steel di Marty Rifkin a donare un tocco affascinante ai brani in scaletta ed il contributo degli ex compagni d’avventura Danny Federici e Gary Tallent, in quella che può essere vista anche come una prova generale di riavvicinamento, prima del ritrovo in studio per incidere gli inediti che finiranno sul Greatest Hits dell’anno successivo.

Si respira un’aria molto simile a quella delle Seeger Sessions del 2006, con una band spensierata, desiderosa solo di attaccare gli strumenti e di vedere cosa sarebbe saltato fuori. Li vediamo alle prese con brani che il suo autore aveva in giro da circa dieci anni (“Janey Don’t You Lose your Heart”, outtake di Born in the USA e già presente in Tracks è qui spogliata delle tastiere ed è proposta probabilmente nella sua migliore versione di sempre, ma anche “Stand on It”, che pure è meno significativa, funziona benissimo) e compaiono inediti di una bellezza sopraffina, come le ballate “Poor Side of Town”, “Under a Big Sky” e “Silver Mountain”, quest’ultima forse l’apice assoluto.

Un lavoro col potenziale per aprire davvero una sliding door nella sua carriera: un vero peccato che ci abbia rinunciato. (VOTO: 8)

 

Facciamo un salto di qualche mese: Tom Joad è uscito ed è iniziato il tour, quello in solitaria, nei teatri di tutto il mondo. Bruce racconta che di sera, dopo i concerti, tornava in hotel e si metteva a scrivere, riprendendo quello stile da purista del Folk, con quelle storie di frontiera al confine tra Messico e Stati Uniti, che tanto lo affascinavano all’epoca.

Inyo si configura dunque come una sorta di “gemello” di quell’album: stessa narrativa e stesso stile di composizione, anche se stavolta le canzoni appaiono meno disadorne, vestite come sono di tastiere, fiati e addirittura strumenti tipici messicani. Colpisce a questo proposito un brano come “The Lost Charro”, con un’atmosfera da festa latinoamericana che è senza dubbio tra le cose più originali mai sentite da lui in tutta la sua carriera. Le sonorità latine ammantano anche “The Aztec Dance” e “El Jardinero (Upon the Death of Ramona)”, mentre “Indian Town”, “Adelina” e la title track si muovono più nel solco di The Ghost of Tom Joad, asciutte e sufficientemente ispirate. Nel complesso discreto ma non indispensabile, ci sta che sia rimasto in un cassetto. (VOTO: 6)

 

Twilight Hours è il disco registrato parallelamente a Western Stars ed effettivamente in quegli anni si è speculato parecchio su questa raccolta di canzoni modellate sul crooning di Frank Sinatra. Sentire Springsteen modulare la sua voce su toni inediti, tra orchestrazioni sovrabbondanti e melodie zuccherose è senza dubbio inusuale, ma diciamo che ne avremmo anche fatto a meno. Non aiuta certo il minutaggio più lungo della media, che contribuisce ad una sensazione di prolissità e ridondanza. Si salva forse solo “High Sierra”, che è meno prodotta e pertanto avrebbe potuto anche figurare su uno dei lavori precedenti. Per il resto, è tutto ampiamente trascurabile. (VOTO: 5)

 

Viene francamente difficile credere che Perfect World sia stato pensato come album a sé stante: poco omogeneo il materiale, poco strutturata la scaletta, senza contare che alcune canzoni sembrano semplicemente abbozzate. Immaginate però alcuni di questi brani al posto di quelli che sono poi effettivamente finiti su Letter to You: immaginate “I’m Not Sleeping” al posto di “One Minute You’re Here”, “Idiot’s Delight” al posto della orrida “House of a Thousand Guitars”, “The Great Depression” (ballata francamente meravigliosa, tra il pianoforte della prima strofa ed il respiro full band della seconda parte) a sostituire “The Power of Prayer”; la stessa “Rain in the River”, tanto criticata quando è uscita come singolo, avrebbe tranquillamente potuto sostituire una “Last Man Standing” o una “Rainmaker”.

Il concetto è semplice: queste session con la E Street Band più o meno al completo certificano ancora una volta che, quando il gruppo è messo nelle condizioni di viaggiare a pieni giri, non ce n’è per nessuno. Suono arioso, potente, col piglio spontaneo di un gruppo di musicisti con un livello di affiatamento che ormai sconfina nella telepatia.

Particolare non trascurabile, il materiale trattato risulta almeno in parte, come abbiamo già detto, migliore di quello che è stato poi effettivamente pubblicato. Alcune cose le conoscevamo già: “Perfect World” era stata regalata a John Mellencamp, che la incise per Orpheus Descending, mentre “Another Thin Line” era stata scritta assieme a Joe Grushecky e fu suonata qualche volta durante i live del 1999-2000. Le altre cose sono inedite e costituiscono una sorpresa positiva: se è vero che le migliori sono quelle che ho già nominato (e ribadisco il valore di “The Great Depression”, che sembra quasi uscita dagli anni d’oro) le altre offrono comunque spunti d’interesse, con “Cutting Knife” che richiama un po’ le sensazioni di Magic, nonostante un uso dell’elettronica un po’ raffazzonato, oppure “You Lifted Me Up”, spontanea e briosa pur nella estrema semplicità della struttura; o ancora “If I Could Only Be Your Lover”, una ballata ammantata di elettricità, con un ruolo deciso della chitarra solista a ricamare tra le strofe. (VOTO: 7)

 

Devo essere sincero: nutrivo aspettative bassissime su questa uscita, non avendo un giudizio positivo su come Bruce Springsteen ha deciso di gestire la sua carriera negli ultimi quindici anni. Tracks II, invece, ha fatto capire per l’ennesima volta perché, nonostante tutte le critiche che è oggi sacrosanto rivolgergli, sia più o meno all’unanimità considerato come uno dei più grandi artisti della storia del rock. Questo cofanetto non ha, lo abbiamo già detto, il peso del primo volume, ma riesce comunque a disegnare qualche sentiero alternativo che, se assecondato, avrebbe potuto forse illuminare di nuova luce la fase centrale di un percorso che, volente o nolente, sta per volgere al termine.