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REVIEWSLE RECENSIONI
15/05/2018
Arctic Monkeys
Tranquillity Base Hotel & Casino
Tranquillity Base Hotel & Casino è un disco figlio di cinque anni di riflessione e della nuova passione di Turner per il piano, un lavoro meditato, voluttuoso ma scorbutico, poco incline ad accondiscendere ascolti superficiali

Scordatevi gli Arctic Monkeys, perché la band che conoscevate non esiste più. Whatever People Say I Am, That's What I'm Not (2006) è un disco che appartiene a un’epoca preistorica, che nulla ha più a che vedere con questo nuovo corso intrapreso da Alex Turner e soci; ma mettete una bella croce anche sul più recente AM (2013), che già non era molto in linea con i primi lavori del gruppo.

Da quel penultimo disco sono passati solo cinque anni, ma la distanza si è fatta siderale. In AM, l’urgenza quasi punk, che ci faceva zompare come indemoniati mentre pulsava rapida I Bet You Look Good On The Dancefloor, era andata (quasi) perduta per sempre.  Le canzoni quel disco denotavano un’architettura sonora più riflessiva, che continuava a mantenere un appeal giovanilistico e modaiolo, ma che si faceva al contempo più variegata, ricca di citazioni e con sfiziosi ammiccamenti a certa musica nera, hip hop e soul in primis.

Se, però, voi, fans della prima ora, consideravate AM l’album del tradimento definitivo, Tranquillity Base Hotel & Casino suonerà alle vostre orecchie come una sorta di vilipendio di cadavere. Quindi, scappate a gambe levate. Perché, al sesto album in studio, gli Arctic Monkeys hanno, infatti, plasmato una scaletta depurata da ogni possibile scoria del passato (visto il nuovo corso, la parola scoria è quasi d’obbligo), tanto che per approcciarsi all’ascolto e uscirne soddisfatti (sempre ammesso che sia possibile), è di gran lunga preferibile non essere fan della band.

Tranquillity Base Hotel & Casino è un disco figlio di cinque anni di riflessione e della nuova passione di Turner per il piano, un lavoro meditato, voluttuoso ma scorbutico, poco incline ad accondiscendere ascolti superficiali, dal momento che l’immediatezza, ormai, non abita più qui. Le chitarre ci sono ancora, certo, ma sono solo sfumature in una tela di colori pastello, tratteggiati da arrangiamenti densi, che vestono di vintage ed elettronica melodie sinuose e stravaganti, citando i Beatles e, perché no, Bowie, e ammiccando a sonorità, tutto sommato, più vicine ai Last Shadow Puppets.

Questo disco, probabilmente, non piacerà, né ai fan della prima ora né agli ascoltatori occasionali, che cercano nella musica emozioni subitanee e quelle due o tre canzoni che spaccano e fanno la differenza anche in termini di orecchiabilità. E ciò nonostante la miglior prova vocale di sempre di Turner, il coraggio della sperimentazione e un fascino elusivo di canzoni quasi inafferrabili.

Un disco complesso, dunque, che ha sancito definitivamente la metamorfosi di una ex internet band di ragazzini, che cavalcò meravigliosamente l’onda lunga del post punk revival e che ora, invece, ha iniziato a suonare in un’altra galassia. Per capire se è un bene o un male, bisogna solo ascoltare: ci vuole tempo, ma potrebbe essere una sorpresa.