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REVIEWSLE RECENSIONI
07/11/2017
Popa Chubby
Two Dogs
Con Two Dogs, Horowitz torna a fare quello che gli riesce meglio e, rispetto al suo predecessore, l’album, pur in un contesto privo di sorprese, suona gagliardo, energico e coinvolgente

Popa Chubby è un grande chitarrista, uno dei migliori in circolazione in ambito rock blues. Grande tecnica, grande energia e la capacità fuori dal comune di infiammare il palcoscenico con tiratissime performance live. Chi lo ha visto suonare dal vivo, infatti, sa che quando il mastodontico chitarrista sale su un palco, è sempre una grande festa per tutti i presenti. A dispetto della stazza, che mi pare aumenti di anno in anno, e dell’età anagrafica (a marzo ne ha compiuti cinquantasette), Popa (al secolo conosciuto anche come Ted Horowitz) continua a palesare un’insospettabile agilità tecnica (è un mistero come riesca a essere così veloce e pulito con quelle dita che paiono rubate alla sagra della salamella mantovana) e una buona dose di fantasia. Altro discorso, invece, è quello che può essere fatto sulla qualità di scrittura, non sempre all’altezza della fama dell’estro chitarristico. Popa, infatti, alterna classicissime partiture di blues elettrico, tanto efficaci quanto spesso scontate, a un eclettismo talvolta fuori controllo, che lo porta ad azzardi compositivi che raramente centrano il bersaglio. Lo avevamo, infatti, lasciato l’anno scorso con Catfish, disco parecchio confuso, in cui il corpulento chitarrista deviava dalle consuete traiettorie per cimentarsi con generi (geneticamente) incompatibili, quali l’hip hop, il reggae e, addirittura, il punk rock. Se lo sforzo di insaporire la pietanza con nuove spezie era senz’altro apprezzabile, alla resa finale, però, il gusto lasciava abbastanza a desiderare. Con Two Dogs, invece, Horowitz torna a fare quello che gli riesce meglio e, rispetto al suo predecessore, l’album, pur in un contesto privo di sorprese, suona gagliardo, energico e coinvolgente. Certo, siamo lontani dai fasti del leggendario Booty & The Beast, bibbia del rock blues newyorkese, datata 1996, e vertice di una lunghissima discografia, che tra full lenght in studio e album live, annovera ben ventisette uscite. Tuttavia, le canzoni sembrano frutto di una ritrovata ispirazione e il disco ripropone in grande spolvero le migliori frecce all’arco di Popa: tonnellate di blues meticcio, in cui confluiscono riff stonesiani (Dirty Old Blues), trascinanti groove funky (la title track e Me Won’t Back Down), infuocati swing alla Stevie Ray Vaughan (Shakedown) e tiratissimi r’n’b (l’iniziale It’s Allright). Qualche passo falso non manca (Wound Up Getting High, ballata priva di mordente e appesantita da un arrangiamento stucchevole), ma la scaletta tiene sulla distanza anche di ripetuti ascolti. Il cd è arricchito, poi, dalla presenza di due bonus tracks live: un’agguerrita versione di Sympathy For The Devil dei Rolling Stones e una, meno riuscita (anche la registrazione è a livello qualitativo di un buon bootleg) di Halleluja di Leonard Cohen.