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REVIEWSLE RECENSIONI
Tyler Bryant & The Shakedown
Tyler Bryant & The Shakedown
2017  (Snakefarm Records)
CLASSIC ROCK ROCK
6/10
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15/11/2017
Tyler Bryant & The Shakedown
Tyler Bryant & The Shakedown
Al disco manca quel briciolo di originalità che consentirebbe a una band, altrimenti grintosa e preparata, di fare il vero salto di qualità

Quando nel 2013 uscì Wild Child, album d’esordio del chitarrista texano, in molti, a proposito di Tyler Bryant, usarono l’appellativo di enfant prodige della scena rock blues americana, e si sperticarono in elogi e paragoni ingombranti con fuoriclasse della sei corde, che avevano già scritto pagine importanti del genere. Il ragazzo, d’altra parte, aveva avuto modo di condividere il palco con pezzi da novanta quali Eric Clapton, B.B. King e Jeff Beck; e poi, c’era quel disco, primo sulla lunga distanza, dopo un Ep pubblicato nel 2011, che deponeva a favore di un radioso futuro. Wild Child, infatti, pur citando l’opera omnia che costituiva il retroterra formativo del ragazzo (Aereosmith, Lynyrd Skynyrd, Guns n’ Roses, Ac/Dc), assemblava un lotto di canzoni impetuoso e brillante, suonato col ringhio sudato dei vent’anni. Tuttavia, a parte l’inevitabile passatismo e qualche concessione al mainstream, in alcune canzoni, oltre a un corposo bagaglio tecnico, si intravvedevano doti compositive molto interessanti. Tanto che, veniva da pensare, il ragazzo si farà, è solo questione di tempo. Oggi, di tempo ne è passato parecchio, e dopo quattro anni, intervallati da un Ep uscito nel 2015 (The Wayside), Bryant si ripresenta nel medesimo punto in cui l’avevamo lasciato. Questo sophomore, che porta il nome del chitarrista e della band che lo accompagna (tra le cui fila milita Graham Whitford, figlio di Brad, chitarrista degli Aerosmith), è, infatti, l’esatta fotocopia del suo predecessore e ne replica pedissequamente i pregi e i difetti. Da un lato, la band pare rodatissima e la chitarra di Tyler fa il suo dovere, evitando di eccedere in virtuosismi; l’entusiasmo della gioventù, poi, lo si coglie nella potenza di un suono diretto, primordiale e senza fronzoli. Tuttavia, a livello compositivo, non c’è proprio nulla che non si sia già sentito centinaia di volte: blues elettrico, vampate hard, ammiccamenti al southern, qualche luccichio sleaze e glam e, talvolta, una strizzatina d’occhio a quel sound radiofonico, che è il combustibile indispensabile per viaggiare verso i piani alti delle charts. Insomma, al disco manca quel briciolo di originalità che consentirebbe a una band, altrimenti grintosa e preparata, di fare il vero salto di qualità. In realtà, non c’è nulla che non vada negli undici brani in scaletta, e alcuni episodi, come la ballata psych rock di Magnetic Field o l’omaggio ai Guns contenuto in Weak And Weepin sono numeri di grande effetto. Bryant, però, non è ancora riuscito a crearsi uno stile, a innescare una visione, ad azzardare quello scarto laterale che gli consentirebbe di smarcarsi dagli stereotipi di genere. Il risultato è, quindi, un disco piacevole, senza infamia e senza lode. Il ragazzo è giovane, però, e, forse, si farà.