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SPEAKER'S CORNERA RUOTA LIBERA
21/02/2018
There is no time
Un omaggio a David Foster Wallace
Non aspetterò il 12 settembre 2018 per ricordare il decennale da che l’uomo che si è fatto inghiottire dalla “cosa brutta”, come la chiamava lui, ci ha lasciati. Non ho tempo, nel senso che le celebrazioni servono fino ad un certo punto. Meglio non sprecarlo e omaggiare la sua nascita, allora, provando a spiegare perché si possa arrivare a sentire la mancanza di una persona che non si è conosciuta.

“There is no time for celebration”

(There Is No Time – Lou Reed)

“I believe in a celebration, I believe you can set me free”

(A Celebration – U2)

 

Tempo.

Dieci anni fa, aprendo la pagina di un sito internet vidi, nella parte alta, l’immagine di un volto familiare, di un amico. La testa era in piccolo, tipo fototessera. Mi rallegrai nel pensare che fosse in uscita un suo nuovo libro; purtroppo non avevo notato da subito le date d’inizio e fine, l’Alfa e Omega che la circondavano.

Fu un colpo durissimo, anche perché non si diceva altro. Non aspetterò il 12 settembre 2018 per ricordare il decennale da che l’uomo che si è fatto inghiottire dalla “cosa brutta”, come la chiamava lui, ci ha lasciati. Non ho tempo, nel senso che le celebrazioni servono fino ad un certo punto. Meglio non sprecarlo e omaggiare la sua nascita, allora, provando a spiegare perché si possa arrivare a sentire la mancanza di una persona che non si è conosciuta.

Il mio primo incontro con David Foster Wallace risale alle ricerche su un altro David, la cui poetica è per me da sempre oggetto di analisi serrate: Lynch. “David Lynch non perde la testa” è il saggio rivelatore che mi ha messo davanti all’evidenza della mia arroganza nel ritenere di aver colto tutte le sfaccettature del film “Strade perdute”, alle cui riprese il nostro scrittore aveva assistito. Di fronte alla frase di DFW “molti registi di un orecchio tagliato trovato in un prato (1) vi spiegherebbero cosa ci faccia lì; a Lynch interessa l’orecchio”  fu innamoramento a prima vista.

Nessuno prima di lui, nei libri che avevo studiato, aveva colto l’importanza di entrare in quell’orecchio, vale a dire di andare oltre la superficie tangibile della realtà per avventurarsi in zone altre, oscure, con il rischio di perdersi, tanto per non perdere il collegamento al film. Nessuno aveva colto l’essenza della poetica lynchiana in modo così acuto; non faccio fatica a immaginarmi DFW, con la sua celeberrima bandana in testa, a fianco del regista di Missoula, mentre osserva e prende appunti. Proprio la testa collega i due David, il primo che proprio con lo sconvolgente “Eraserhead” diede inizio alla sua carriera e il nostro, che temeva che gli scoppiasse (da qui infatti nasce l’uso della bandana, con cui si aggirava nel campus universitario, dato che sudava copiosamente per via delle sue ansie, portando con sé anche la racchetta da tennis  da cui era inseparabile, perché gli serviva come stratagemma per dribblare le domande che la sua tenuta suscitava).

Testa, Cervello, Mente.

Questo per dire che l’approccio alla sua scrittura non è certamente immediato, molto dipende anche da quale porta si sceglie di aprire per affacciarsi alla visione del mondo delineata da quest’uomo.  Per me, oltre al saggio di cui sopra, hanno avuto una forte incidenza i primi titoli delle sue opere che anni fa notavo nelle librerie: “Una cosa divertente che non farò mai più”, “Verso Occidente l’impero dirige il suo corso”, “Brevi interviste con uomini schifosi”.

I titoli erano un programma, un manifesto. Il tema era da subito messo sul banco, sia che si trattasse del resoconto di una crociera o del ritrovo di tutte le persone che avevano recitato in uno spot di McDonald’s, sia degli aspetti più ripugnanti dell’essere umano. Argomenti in un certo senso diversi, ma con un tratto in comune: l’analisi del nostro tempo, vale a dire la forma del nostro stare nel mondo.

Un tempo “stupido” per riprendere l’interessante analisi svolta da Tommaso Pincio nel suo “Hotel a zero stelle” (2), un tempo in cui spesso siamo lasciati soli davanti ad uno schermo. Proprio questa era una delle principali preoccupazioni di David Foster Wallace, al di là delle citazioni, dei rimandi filosofici, delle complessità cerebrali per cui dire esattamente di cosa parlino le sue opere richiede…tempo.

Fin dal titolo di questo pezzo continua a ricorrere questa parola. Ovviamente non l’ho scelta a caso, perché l’opera più famosa riguarda una sua dimensione: l’Infinito. Uno scherzo infinito.

Stiamo parlando di Infinite Jest, il suo secondo romanzo, “infinito” per il numero di pagine, per la complessità della storia (3), ma soprattutto per le note a piè di pagina (nella prima edizione); un vero libro nel libro dove le linee narrative si intrecciano. Di tutto quello che potete trovare all’interno di questo magnum opus voglio solo accennare al McGuffin del libro (4): un film.

Infinite Jest” è anche il titolo del film la cui visione procura un piacere che porta a uno stato catatonico, a una dipendenza; Wallace conosceva molto bene ciò di cui parlava, perché di ore davanti a quello schermo ne passava tante, rintanato in casa alle prese con la “cosa brutta”, questo buio che lo inseguiva da tanto tempo, tempo…sempre questa categoria. Non ne esiste un’altra da trattare? O quantomeno: è possibile affrontare l’argomento da un altro punto di vista? Certo. “Tutto e di più. Storia compatta dell’Infinito”: David non ha avuto alcun timore nel buttarsi a capofitto in argomentazioni matematiche. Anzi, questo titolo potrebbe essere utilizzato per definire la sua produzione letteraria: di tutto. E di più. Infinito (5).

In questo senso mi sento di avvicinare David Foster Wallace, quale esploratore dell’umano, ai grandi geni della storia, a quei pionieri che hanno cercato di tracciare nuove linee direttrici senza escludere nulla, fino al punto di arrivare, come nel suo caso, a cambiare tipo di scrittura.

Ci stava provando, infatti, negli ultimi tempi.

Meno cerebrale, meno incline alle sperimentazioni della scrittura creativa (6), più aperto. Lo dimostra “The Pale King” il romanzo pubblicato postumo dove affrontava, sempre tra mille spunti, la giungla del mondo tributario statunitense, arrivando a partecipare a corsi sull’argomento per possedere la materia. Può risultare interessante un’opera del genere? La risposta più efficace è il meraviglioso incipit del libro:

“Di là dalle pianure di flanella, i grafici d’asfalto e gli orizzonti di ruggine sbilenca, e al di là dal fiume tabacco sormontato dagli alberi piangenti monetine di sole che filtrano sull’acqua della foce, nel punto oltre il frangivento, dove i campi incolti rosolano striduli al caldo antimeridiano: sorgo, farinello, leersia, salsapariglia, cipero, stramonio, menta selvatica, soffione, setaria, uva muscadina, verza, verga aurea, edera terrestre, acero da fiore, solano, ambrosia, avena folle, veccia, gramigna, fagiolini spontanei invaginati, tutte teste che annuiscono dolcemente a una brezza mattutina che è la morbida mano di una madre sulla guancia. Uno strale di storni scoccato dalle stoppie del frangivento. Il lucore di rugiada che resta lì a svaporare tutto il giorno. Un girasole, altri quattro, uno chiuso. E lontani cavalli rigidi e immoti come giocattoli. Annuiscono tutti. Suoni elettrici di insetti indaffarati. Sole biondo birra, cielo pallido e volute di cirri così alte da non fare ombra. Insetti indefessamente indaffarati. Quarzo, selce, scisto e croste di condrite ferrosa nel granito. Terra antichissima. Guardatevi intorno. L’orizzonte tremola, informe. Siamo tutti fratelli”.

(Einaudi, 2013, traduzione di Giovanna Granato)

Raramente ho trovato un tasso di lirismo così alto in un’opera che apparentemente tratta di tutt’altro, di una materia fredda; proprio in questo punto risiede, a mio avviso, il nocciolo della questione: parlare d’altro. Una diversione, uno sguardo diverso: questo di solito è quello che fa l’Arte quando ci porta altrove. E allora, fermo restando l’impossibilità di trasmettere ad altri l’empatia che si prova per una persona, mi sento di consigliare di provare ad affrontarlo in modo diretto, un po’ come obbligano a fare certe opere filosofiche. Ultimamente sono uscite delle pubblicazioni in stile Reader’s Digest con estratti da alcuni libri: personalmente, dissento. Lasciate perdere, piuttosto. Provate, invece, a entrare nel mondo, nella testa di un uomo che partito con intenzioni sicuramente cerebrali dettate dal tentativo di elaborare un nuovo canone letterario (e c’è riuscito), ha finito con lo scrivere, paradossalmente, come ultima parola pubblicata in vita questa: Cuore (7).

 

Post-Tempo.

Avrei voluto dire ancora un milione di cose, ma questo voleva solo essere un omaggio.

Avrei dovuto parlare del suo primo romanzo, dati i miei studi filosofici, dove si parla di una novantenne allieva di Ludwig Wittgenstein in fuga dall’ospizio con altri arzilli vecchietti; avrei dovuto parlare dei magnifici, stranianti racconti de ”La ragazza dai capelli strani” la cui lettura chiesta a mia moglie mentre avevo la febbre a 38°, la fece salire a 41°; del racconto “Lyndon” dove veniva ribaltato il machismo del Presidente Lyndon Johnson, di quell’incredibile titolo dedicato a George Federer, “Il tennis come esperienza religiosa”, di come, nella prolusione  a “Questa è l’acqua”, letta ai diplomandi di un college…stop. Mi fermo qui. Non gli renderei certo giustizia dedicando poche righe all’immensità di idee che ci ha regalato.

E’ il suo compleanno, lasciamolo in pace quindi e ricordiamo il suo entusiasmo quando venne a Capri, ospite de “Le conversazioni”, riascoltando il suo intervento in cui provava a chiarire quella che era la sua urgenza primaria: farsi capire. E poi quella frase iniziale per cui vi rimando al video qui sotto, quell’affermazione che per me, nel tempo, ha assunto una portata enorme, infinita, se posso dire. Quasi un mantra che mi accompagna nella quotidianità e che mi richiama a non essere troppo duro con me stesso nei miei errori.

“Everything that is a failure, is always a victory”.

 

Note

  1. Il riferimento è all’inizio del film “Velluto Blu”, mentre sempre in tema di incipit è doveroso ricordare la presenza di un terzo David: Bowie che nei titoli di testa di “Lost Highways” canta “I’m deranged”, mentre un’auto corre all’impazzata nel buio.
  2. Libro dove a ogni livello narrativo corrispondono “stanze” dedicate a celebri scrittori.

      3 . Un accorato grazie a Edoardo Nesi per la titanica opera di traduzione nella prima edizione Fandango.

  1. Per la definizione di McGuffin rimando al celeberrimo libro-intervista di François Truffaut ad Alfred Hitchcock, coniatore dell’espressione che, in poche parole descrive un meccanismo che conferisce dinamismo alla trama, diventandone il perno.
  2. La scrittrice Zadie Smith nella riedizione postuma de “La ragazza dei capelli strani”, raccontava di come fosse per lei impossibile approcciarsi al libro dell’amico scrittore, non avendo la padronanza di complessi concetti matematici e di come David le dedicasse molto tempo nel convincerla che tutto sommato non era poi così difficile. Ed era vero. Basta avere un buon maestro.
  3. Wallace compariva in quella pubblicazione germinale di giovani - allora – scrittori dal titolo “Burned children of America”, in procinto di essere stampata da Minimum Fax a ridosso dell’11/09/01, la cui pubblicazione fu -per ovvi motivi- posticipata. Oltre a lui col suo racconto “Incarnazioni di bambini bruciati” comparivano autori oggi celebri come: Dave Eggers, Rick Moody, Johnathan Lethem, George Saunders, A.M. Homes, Aimee Bender, Matthew Klam.
  4. Brave persone”, pubblicato nella nuova edizione de “La ragazza dai capelli strani”, Ed. Minimum Fax.