Quella di Karen Lee Batten è la classica storia di chi ha saputo sfruttare al meglio tutte le occasioni che gli si sono presentate. Canadese, originaria della British Columbia, la Batten ha partecipato nel 2003 alla prima stagione di Canadian Idol, reality show nazionale, ispirato al britannico Pop Idol, piazzandosi nella top 11 del programma e riscuotendo un discreto successo con la sua cover di Come Away With Me di Norah Jones. Una visibilità mediatica che le ha consentito di pubblicare due dischi (Every Moments del 2005 e Cause A Scene del 2014), di piazzare in classifica un pugno di singoli e, soprattutto, di aggiudicarsi quattro volte (2004, 2005, 2006, 2014) il British Columbia Country Music Association Awards, come miglior vocalist femminile dell’anno.
A prescindere da ogni valutazione di merito sui precedenti lavori, occorre precisare che quello della Batten è stato fino ad ora un repertorio country di facile presa, che ha sempre strizzato l’occhio alla melodia nashvilliana e a sonorità molto radio frendly. Stupisce, dunque, questo Under The Covers In Muscle Shoals, che rappresenta un significativo cambio di rotta e che possiede tutti i crismi di quella che potremmo definire una raggiunta maturità artistica. Un’opera ambiziosa e (apparentemente) rischiosa, che vede la songwriter canadese alle prese con un repertorio di cover di brani che hanno avuto la propria genesi proprio a Muscle Shoals (Alabama), un luogo in cui si respira musica, non aria.
Prodotto da Mitch Merrett e Michael Pyle e suonato con il contributo della band di casa (chiamata affettuosamente The Swampers) il disco è stato registrato per intero presso i Fame Studios, una sala di registrazione in cui si respira la Storia con la S maiuscola, visto che da queste parti sono passati personaggi del calibro di Aretha Franklin, Etta James, Bob Dylan, Lynyrd Skynyrd e Otis Redding, solo per citare i primi che vengono in mente. Non era, quindi, facile per l’ultima arrivata, entrare in un vero e proprio mausoleo musicale e rileggere undici grandi canzoni, restituendo all’ascolto quel suono unico, che tutti gli amanti del rock a stelle e strisce hanno imparato ad amare ormai da tantissimo tempo.
Se la backup band (basso, batteria, piano, organo, chitarra e sezione fiati) risulta affiatatissima e riproduce alla perfezione quella miscela di rock, r’n’b, country, soul e gospel, che rappresenta il classico sound Muscle Shoals, la Batten, da parte sua, ci mette straordinaria umiltà, devozione filologica e, soprattutto, l’esuberante entusiasmo di chi è riuscita finalmente a toccare con mano il mito di una vita. Era rischioso, infatti, approcciarsi a un repertorio di canzoni che sono entrate nella leggenda, evitando scivoloni e banali e prudenti copia-incolla. Invece, Karen Lee, grazie anche a una voce duttilissima, capace di accarezzare il cuore e di sfoderare, al contempo, tonnellate di grinta, riesce nell’intento di vestire con la propria personalità brani arcinoti, di cui, francamente, nessuno sentiva il bisogno dell’ennesima rilettura. Un quid in più, che fa la differenza.
Basterebbe ascoltare la splendida cover di Sweet Home Alabama, che da quelle parti suona come una sorta di inno nazionale, per rendersi conto che, un arrangiamento inusuale e un’interpretazione caldissima, possono dare un diverso volto, altrettanto affascinante, a una canzone tanto famosa che la potrebbero cantare anche i sassi. Non è però l’unico momento vincente di un disco che fila via dall’inizio alla fine senza un benché minimo cedimento. Sono a dir poco spumeggianti, infatti, le versioni di Land Of 1000 Dances, classicone reso celebre da Wilson Pickett, e di Hard To Handle, presa dal repertorio di Otis Redding, mentre le due cover di I’d Rather Go Blind di Etta James e I Never Loved A Man di Aretha Franklin tengono testa agli originali in virtù di una coinvolgente e appassionata interpretazione.
Tra i migliori momenti in scaletta, anche una suntuosa reinterpretazione di Let It Rain di Amanda Marshall (da brividi la performance vocale della Batten) e una travolgente Gotta Serve Somebody, pescata da Slow Train Coming di Bob Dylan, a suggello di un disco che, vista la materia trattata, poteva rivelarsi un clamoroso passo falso e che, invece, suona pimpante come una scommessa vinta. Dedicato a Rick Hall, produttore e proprietario dei Fame Studios, che ci ha lasciato lo scorso 2 gennaio.