Tutto questo per dire che il ritorno di Ry Cuming detto Ry X in versione solista è arrivato dopo un’attesa di quasi tre anni ma degli undici brani presenti in scaletta (due sono interludi strumentali che sviluppano il tema di una delle tracce) ben cinque erano già stati anticipati a partire da ottobre.
Il titolo è di per sé una dichiarazione d’intenti, il desiderio di spiegare la propria interiorità come si fa con una bandiera a lungo riposta in un cassetto e che si voglia ad un tratto appendere fuori.
Il musicista australiano lo fa mettendo in atto una ricetta simile a quella che aveva già adoperato nel suo disco d’esordio “Dawn”, datato 2016. Lo stile delle composizioni è quello, l’utilizzo della voce, che alterna falsetto a tonalità più sussurrate, non è mutato di troppo. Insomma, l’impronta è inconfondibile, c’è sempre quel Folk notturno e malinconico che deve un po’ a Bon Iver, un po’ a Sufjan Stevens ma questa volta l’impronta elettronica è maggiore, come se il suo progetto parallelo Howling (che è poi il modo con cui abbiamo imparato a conoscerlo) avesse in qualche modo fatto capolino all’interno del suo songwriting.
È così che si era introdotto, del resto, con i singoli “Untold” e “Bound”, piazzati strategicamente in apertura, come a volerne definire l’impronta sonora. Due ballate raccolte, con un’elettronica rarefatta e minimale in sottofondo, che disegna paesaggi di triste bellezza. Nel finale della seconda, però, la forma canzone sembra dissolversi, con loop e campionamenti vanno in primo piano. Un gioco che verrà ripetuto più avanti, in episodi come “Coven” o “The Water”, mentre in “Yayaya” e “Foreign Tides” (anch’esse già uscite come singoli), c’è una maggiore dinamica e si assiste ad un lieve aumento del ritmo.
In poche parole, Cuming scrive pezzi canonici ma li riveste a proprio piacimento, con un lavoro di produzione che non ne altera mai la sostanza, pur inserendo elementi che, a tratti, potrebbero far accostare la sua proposta a quella di un James Blake o di un SOHN.
“Unfurl” è un buon disco, per chi scrive un passo avanti rispetto al già ottimo esordio, che denota il talento del suo autore nello scrivere brani immediati che non rinunciano al proprio carattere riflessivo e contemplativo. Si veda ad esempio “Hounds”, tutta costruita su una chitarra leggera, impercettibile, suonata in punta di piedi eppure devastante nella sua cruda nudità (“I lay my body down to listen to the sound, I let my heart peek out to feed it to the hounds”) e che si riempie solo alla fine, con un leggero ma costante tappeto di archi e beat.
Unico difetto è forse una scaletta che infila qualche filler qua e là, così che l’impatto complessivo ne risulta attenuato. Del resto, le coordinate esplorate non variano molto e la ripetitività è un rischio difficile da scongiurare.
Al di là di questo, Ry X ha fatto centro di nuovo e merita senza dubbio di essere annoverato tra i nomi più importanti di questa nuova generazione di cantautori/produttori. Osa meno di James Blake e forse non ha ancora il tocco di Justin Vernon (anche se su “Unfurl” ci sono almeno tre o quattro episodi davvero memorabili) ma se le sue quotazioni si ritroveranno ad aumentare non ce ne stupiremmo per niente.