Ci è già capitato in passato di affermare come per film particolarmente enigmatici, o che semplicemente richiedano allo spettatore uno sforzo interpretativo più consistente del normale, sia tutto sommato semplice sposare una linea di lettura e andare poi a cercare nell'opera elementi che possano corroborarla o quantomeno renderla (per quanto possibile) un minimo credibile. Nulla di male in questo, è fuori di dubbio come molti critici o anche semplici amanti del cinema si dilettino nella maniera più onesta e appassionata a questa pratica che può facilmente rivelarsi stimolante e finanche divertente.
Upstream color, secondo lungometraggio del regista statunitense Shane Carruth, si presta in toto all'essere sviscerato dall'intelletto dello spettatore più volenteroso alla ricerca di un recondito significato dell'opera, cosa tra l'altro impossibile da trovare se non nel campo delle ipotesi o delle speculazioni, le certezze non abitano da queste parti (e a sentire chi ha visionato anche l'esordio Primer non abitano nemmeno in casa Carruth).
Film ermetico quindi che apre il fianco a dibattiti senza fornire risposta alcuna; genio dell'autore? Volontà di confondere le acque? Approccio "arty"? Supercazzola per immagini (e poche parole)? Ai posteri, o anche a voi amati lettori, l'ardua sentenza!
Kris (Amy Seimetz) è una donna con una vita all'apparenza normale; una sera viene aggredita da uno sconosciuto (Thiago Martins) che la costringe a ingoiare una larva coltivata e trattata dallo stesso e da un team di suoi giovani collaboratori. Questa larva entra nell'organismo di Kris inducendole un forte stato ipnotico che la porta a trovarsi alla completa mercé del suo aggressore che pian piano riesce a portarle via l'intera sua vita: tutti i suoi risparmi, la casa, alla fine anche il lavoro e la possibilità di mantenersi da sola.
Quando l'insolito criminale sembra aver sfruttato appieno Kris questa, sempre attraverso il parassita che ora le abita il corpo, viene attratta da un altro uomo misterioso che potremmo chiamare l'uomo dei maiali (Andrew Sensenig), all'apparenza non chiaramente intenzionato a far del male alla donna, infatti questi la libera dalla larva trasferendola in un maialino; Kris è ora libera, senza più nulla al mondo ma, forse, con qualche tipo di legame residuo con quel suino.
Poi arriva Jeff (lo stesso regista Shane Carruth), un uomo che sembra aver subito esperienze simili a quelle di Kris, si conoscono in metro, la loro unione potrà diventare un'amplificarsi del trauma o, se i due si dimostreranno forti e fortunati, magari una cura per entrambi.
Carruth, tramite l'utilizzo di immagini e sequenze suggestive e avvolgenti, costruisce una (non) storia dalla difficile interpretazione. Da due situazioni di crisi, una sola ben esplicitata allo spettatore (quella di Kris) si arriva a quella che potrebbe essere vista o come una storia d'amore difficile e screziata di follia o come una cura, un sostegno da trovare (l'uno) nell'altro per affrontare e sconfiggere le difficoltà e le minacce poste dal mondo esterno, possibile metafora della società moderna in cui ci troviamo a vivere.
Ma, sempre rimanendo nel campo delle elucubrazioni, anche una ritrovata libertà (Kris si libera dal verme) può essere solo apparente e qualcun altro per noi continua a tirare i fili del gioco (Kris è ancora in qualche modo legata al maiale e all'uomo dei maiali). E pure quando il male evidente può sembrare sconfitto, siamo poi proprio sicuri che i processi che stanno sopra di noi siano effettivamente debellati? (è finita davvero la minaccia del controllo esterno? Tema di grande attualità).
Sono parecchie le tesi che possono accostarsi al film di Carruths: controllo, elaborazione del trauma, guarigione tramite relazione, caso e insondabilità degli eventi; ad ogni modo il film è godibile, forse profondo, forse solo paraculo, di certo affascinante, ben diretto e studiato.
Vi piace interrogarvi su strutture poco limpide e significati reconditi? Upstream color è il film che fa per voi.