Nulla è cambiato, tutto è rimasto identico all’ultima volta. Dopo una pausa di sette anni, il super gruppo anglo-americano Black Country Communion torna con un album, la cui proposta sembra restare immutabile nel tempo: intensità, tecnica, passione, per una manciata di brani costruiti sul trasporto ad alto contenuto energetico di riff classic rock anni ’70.
La solita solfa, direbbe qualcuno; per fortuna, dico io. Perché, in definitiva, almeno per chi ama il genere, questa è manna dal cielo. Per svariati motivi.
Il primo, perché in questo ultimo lavoro abbiamo una band che suona insieme, guardandosi negli occhi, e non scambiandosi file a distanza di centinaia di chilometri. I Black Country Communion sono entrati in studio senza idee concrete, ma hanno lavorato in maniera organica, partendo da degli abbozzi e sviluppandoli attraverso riff e groove, per catturare la scintilla collettiva che ha dato vita alle dieci canzoni in scaletta.
Inoltre, ci troviamo al cospetto di una band affiatata, dal livello tecnico superiore, in cui ognuno dei membri sa esattamente cosa fare e, soprattutto, è libero di farlo. In questo contesto vintage, che attinge, come è evidente fin dal primo disco della loro avventura, a grandi band del passato (Led Zeppelin, Deep Purple, etc.), Bonamassa insuffla dosi massicce di blues, e ha tutto lo spazio per colorare la tela sonora con le consuete pennellate, a volte, vigorose, in altri casi morbide e sognanti. Un collante che tiene insieme la voce appassionata e le linee di basso serpeggianti di Glenn Hughes, il suono stratificato delle tastiere di Derek Sherinian, e il drumming potente e stentoreo di Jason Bonham.
Il risultato è disco che riafferma la capacità della band di aggiornare il modello rock dei primi anni ’70, dandogli un taglio contemporaneo e intergenerazionale. Al centro della narrazione, come detto, riff che evocano, soprattutto, Zep e Purple, ma anche spazio per incorporare le atmosfere funky care Hughes (oltre alla sua capacità di trovare sostanza emotiva anche nelle battute più martellanti) e per le fumanti digressioni bluesy di Bonamassa.
Un mondo sonoro riconoscibilissimo, in cui, poi, ci sono anche le canzoni, prevedibili, forse, come lo è tutta la musica che si ispira al passato, ma non per questo meno avvincenti.
Il singolo che apre il disco, "Enlighten", è una convincente combinazione fra riff hard rock e hook melodici accattivanti, l’altro singolo, "Stay Free", mette Steve Wonder al servizio dei Led Zeppelin e trascina con un groove funky irresistibile, "Restless" è una ballata blues a lenta combustione, in cui protagonista è la chitarra stellare di Bonamassa, e se "Letting Go" viaggia a cento all’ora su un riff che richiama alla memoria Angus Young, la conclusiva "The Open Road" è una cavalcata funky che rallenta il passo solo per permettere al chitarrista americano di prendere in mano le redini e sfoderare un vibrante assolo, che dal vivo potrebbe allungarsi a dismisura per chiudere, tra le fiamme, il live act della band.
Che V non riservi soprese e che la sensazione di deja vù si nasconda dietro ogni brano è un’ovvietà sulla quale è totalmente inutile perdere tempo. Quello che conta è che, per quanto anacronistico, il nuovo disco dei BCC è l’ennesimo regalo al mondo del rock di una band che si è trasformata in anello di congiunzione tra passato e presente, che restituisce emozione ai tanti nostalgici degli anni ’70, ma che è anche in grado di suggerire alle nuove generazioni la potenza e la bellezza di un genere che, più di altri, riguarda soprattutto la giovinezza. E’ musica suonata, è musica suonata bene, è musica suonata con passione e divertimento. E’ semplicemente rock.