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REVIEWSLE RECENSIONI
23/11/2021
Snail Mail
Valentine
Quanto al giorno d'oggi fare dischi è diventato più una seduta di psicoterapia che un lavoro o un'arte? La domanda, anche nel caso dell'ultimo album di Snail Mail, fa riflettere.

Al giorno d'oggi sembra che fare dischi sia divenuto più una seduta di psicoterapia piuttosto che un lavoro o semplicemente un qualcosa che ha a che fare con l'arte e con la comunicazione di sé. I Social (e soprattutto il modo in cui oggi si comportano i Social) non aiutano e sempre di più mi pare che l’uscita di un nuovo lavoro coincida per il musicista di turno con una fase di crollo emotivo, come un “all in” che in caso di insuccesso brucerebbe un'intera esistenza.

Lindsey Jordan rientra in questa casistica e anche nel suo caso la narrazione è sempre la stessa: il successo in giovanissima età, il tour lungo e stressante, la ricaduta nell'abuso di sostanze e la conseguente riabilitazione, la pandemia che l’ha portata, come molti altri adolescenti americani, a tornare a casa dai genitori, nel suo caso a Baltimora, la scrittura del nuovo disco sul pavimento di quella che fu la sua cameretta; tutto questo riassunto da post Facebook successivo all'uscita in cui dichiarava che: “Fare questo disco è stata finora la più grande sfida della mia vita. Ho messo tutto il mio cuore e la mia anima in ogni più piccolo dettaglio, per cui suggerisco, per un’esperienza ottimale di ascolto, di mettervi in una stanza illuminata solo da una vecchia lampada ad olio, con giusto la luce sufficiente a leggere i testi mentre ascoltate”.

Può sembrare un tono ironico, il mio, ma vi assicuro che non lo è, sono solamente dubbioso: fatta salva la buona fede e data per scontata l’assoluta sincerità dei sentimenti espressi, la domanda rimane: quanto questa tendenza del cuore aperto, del mostrarsi nuda davanti all'ascoltatore, con le proprie fragilità ed insicurezze, rischia di divenire anch'essa parte di una proposta artistica, addomesticata e standardizzata dentro un’etichetta, quella dell'Indie Rock al femminile che, mi pare sia evidente, sta diventando sempre più popolare in questi ultimi anni?

Valentine è il secondo album di Snail Mail ed arriva tre anni dopo Lush, che l’ha lanciata e consacrata come una next big thing della sempre più vasta scena che va da Julien Baker a Phoebe Bridgers, passando per Lucy Dacus, Soccer Mommy, Faye Webster, Porridge Radio e un sacco di altri nomi.

Arrivato, come già detto, dopo un periodo di crisi, con la ricaduta nelle sostanze e la conseguente riabilitazione, l’impressione è che questo lavoro si concentri ancora di più sull'esperienza dell’autrice, in particolare sulle sue storie d'amore andate male e sul desiderio di essere accettata per quello che è. “Doesn't obession just become me?” dice ad un certo punto, in quello che sembra un tentativo di trovare una più autentica dimensione di sé, smettendo di concepirsi definita dai propri limiti e dai propri problemi.

La produzione di Brad Cook è uno dei fattori per cui, se Lush era maggiormente configurato come un Indie Rock a base di chitarre, Valentine esprime sonorità più vicine al Pop, per lo meno nella sua prima parte. In effetti la Jordan l'ha messo in chiaro esplicitamente: le prime cinque canzoni sono allegre e divertenti, nelle restanti cinque “la festa è finita e ci sono io da sola e ubriaca”. La title track l’avevamo già ascoltata settimane fa ed è forse il brano più compatto da lei composto, c’è un ritornello sparato che sa molto di anni ‘90, quando andava un modello di scrittura più anthemica e robusta, tra Nathalie Imbruglia, Anouk e Alanis Morrissette. “Ben Franklin” è una sorta di raffigurazione del proprio alter ego: il verso “Got money, don't care about sex”, va inteso in senso autoironico, ha detto, nel senso che vorrebbe essere quel personaggio ma non lo è. Questa e la successiva “Headlock” sono comunque gli episodi migliori del lavoro, per come riescono ad offrirci una nuova prospettiva del songwriting di Snail Mail, tra la preponderanza dei Synth e il tono vagamente straniato delle melodie vocali.

E se ci sono sempre richiami al vecchio repertorio, da “Forever (Sailing)” ad “Automate”, impreziosite però da efficaci orchestrazioni, nel resto della scaletta delicate ballate chitarra e voce come “Light Blue” (un brano che ha scritto due anni fa, dedicato ad un amore finito), “c. et al.” e la conclusiva “Mia” si alternano a pezzi più elettrici e sostenuti come “Madonna” e “Glory”, dove la produzione è più presente e tastiere ed archi sostituiscono le chitarre distorte che abbondavano in Lush.

Il risultato complessivo è buono ma non di più: meno immediato del suo predecessore, Valentine gode di un upgrade negli arrangiamenti e in generale nella cura della confezione ma lamenta una certa mancanza di efficacia nella scrittura, con brani che nella maggior parte dei casi mancano della necessaria forza e immediatezza per spiccare nel mare di uscite simili che affollano il mercato.

Per carità, l’intensità e l'intimità della narrazione non vanno messi in dubbio ma la sensazione è che manchi qualcosa di realmente autentico e si sprofondi il più delle volte nel cliché. Sarò in minoranza, visti i voti altissimi dei siti più influenti ma per tornare alle considerazioni che si facevano all'inizio, non credo che Lindsey Jordan abbia il talento di una Julien Baker o di una Phoebe Bridgers.

La aspettiamo dal vivo, anche perché l’unica volta che l’ho vista ha offerto una prestazione tutt'altro che impeccabile.