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REVIEWSLE RECENSIONI
11/12/2018
Edy
Variazioni
Probabilmente è molto più facile di quanto non sembri. O forse, più semplicemente, dipende dal background e dalla storia personale del singolo artista. Fatto sta che non bisogna ascoltare più di tanto quelli che dicono che scrivere musica in Italia stia diventando un mero esercizio di stile alla ricerca di facili consensi da playlist. Basta pazientare, allargare un po’ lo sguardo e i prodotti originali, non allineati, arrivano. Certo, occorre anche saperli trovare.

Alessio Grasso, in arte Edy, ha alle spalle un discorso artistico di una certa longevità (UltraviXen, Jasminshock) ma non è certo un nome che sta sulla bocca di tutti. Eppure, in un modo misterioso ma in fondo perfettamente naturale, ha realizzato uno dei dischi italiani più belli dell’anno. Anzi, forse il più bello in assoluto, se non fosse che siamo a dicembre, ho ascoltato decine di cose e non mi sono fermato a riordinare i pensieri.

Ad ogni modo “Variazioni”, che è uscito il mese scorso per Godfellas (arrivo in ritardo, lo so), è qui a rappresentare un esempio meraviglioso di come si possa scrivere qualcosa di non appiattito sui cliché, utilizzando allo stesso tempo linguaggi e codici che certamente non possono dirsi nuovi.

Lui dice che è stato un incidente in moto particolarmente serio, con la relativa convalescenza, a fargli venire voglia di prendere altre direzioni, al di fuori del Punk e derivati che gli erano da sempre più famigliari.

In qualunque modo sia andata, quello che abbiamo tra le mani è una sintesi brillante di Pop e cantautorato, un disco perennemente in bilico tra modernità e tradizione, tra analogico e digitale, che fonde i vari elementi in maniera omogenea, tanto da non risultare mai citazionista.

È la varietà una delle caratteristiche a risaltare di più. Si parte con due brani ritmati come “Fai quello che vuoi” e “Immobile”, tra echi Seventies e suggestioni da World Music e subito dopo, con “La casa di Barbie”, ci si tuffa in pieno nel Synth Pop più maturo, per una ballata meravigliosamente costruita, con le tastiere a reggere l’impalcatura strumentale ed un ritornello bellissimo. Canzone d’amore sui generis, che narra il ritorno, dopo molti anni, di una ragazza che domanda di essere guardata, nonostante le sue ferite ancora aperte, questo è un brano che mostra come si possa scrivere in maniera identificabile senza tuttavia apparire banali. Probabilmente uno dei migliori episodi dell’anno in questo genere.

Sono diverse come il giorno e la notte anche le successive “Come un flash” e la title track: la prima è un’altra ballata, più languida ed eterea della precedente, ancora una volta sorretta da meravigliose melodie vocali (il livello di ricerca che Edy mette in questo campo è davvero fuori del comune), la seconda è un’improvvisa accelerazione rock che si riempie di distorsioni e che si muove a metà tra Battisti e Celentano, pur se riletti in chiave più robusta.

“Necessario” è un’esplosione elettrica improvvisa, con ritmica vagamente tribale e alla pari di “Lento ma forte” e “Drama” è uno di quei momenti in cui il suono si stratifica maggiormente, saturandosi di elettricità e dove anche l’uso della voce è differente, privilegiando tonalità più alte e a tratti urlate.

“Milano Pastis”, a base pianistica, è invece dimessa e crepuscolare, corredata da un testo importante e in generale rappresenta una delle cose migliori del disco. Il discorso dei testi andrebbe approfondito, in effetti: al di là di essere di una generazione differente rispetto agli artisti che oggi vanno maggiormente di moda, è fin troppo chiaro che per scrivere bisogna avere qualcosa da dire. E qui, pur con un linguaggio più impressionistico che narrativo, siamo di fronte ad un’autentica comunicazione di esperienza, oltre che ad un notevole capacità di utilizzo delle parole (“Il cielo non si prende per consenso, il cielo si prende per assalto” canta ad esempio in “Drama”).

E cosa voglia dire saper mescolare linguaggi differenti lo si capisce soprattutto da “Catania”, che parte come ballata acustica con accompagnamento d’archi e dopo un minuto cambia completamente forma, inserendo una base elettronica e scorrazzando in ambito Synth Pop.

Per non parlare poi di “Faccia di luna”, marcia cadenzata con echi New Wave, preludio ad un finale di disco più cupo, culminante in “Se questo è un uomo”, rilettura dell’omonima poesia di Primo Levi, base elettronica al confine con l’Industrial.

Il tutto corredato dalla produzione di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, che ha saputo dare al tutto un’impronta ruvida, puntando meno sulla pulizia dei suoni e molto di più sul feeling live.

Probabilmente passerà inosservato o quasi, perché la formula del successo oggi passa da altre parti, da altre soluzioni. Eppure, sempre di più si avverte la sensazione che l’unico modo per uscire dall’impasse nel quale il cosiddetto Indie italiano sembra essersi rinchiuso, dove la qualità emerge ma al prezzo di una serie di proposte in fotocopia, sfornate l’una dopo l’altra, è quello di liberare la propria inventiva, senza mettere troppi steccati e soprattutto mettendo in musica la propria interiorità. Anche gli incidenti in moto servono a qualcosa, sembrerebbe.