Ho fatto una sciocchezza, lo so. Eppure erano giorni che mi dicevo “non leggere le cartelle stampa del concerto, non farlo!” Ecco fatto. Adesso che maldestramente so quasi tutto, perfino quale sarà la scaletta, mi chiedo cosa mai potrò raccontare di nuovo dopo questa serata. Proviamoci.
Per chi sull’orbe terracqueo ignorasse il profilo dell’artista che stasera ascolterò, e solo per riepilogo, si informano i signori viaggatori che l’artista di cui parleremo si chiama Rossi Vasco, nato a Zocca nel 1952, alle spalle quasi cinquanta anni di carriera e 34 album, oltre a più di ottocento (!) concerti. Un uomo che ha smentito chi di volta in volta lo dichiarava finito ritornando periodicamente al top delle classifiche. Per la rubrica “non tutti sanno che” a questo proposito aggiungo che fra i vari primati del nostro Vasco c’è quello di essere stato primo in classifica con i suoi album in cinque decenni differenti. Non so se mi spiego.
Poi c’è una cosa cui non avevo mai fatto caso, adesso che l’ho chiamato come nei documenti della Pubblica Amministrazione (come si fa nel sud Italia, o nelle questure), cioè prima il cognome e poi il nome. Il nostro uomo ha un cognome da uomo comunissimo e un nome da fiero esploratore. Potrà servire come chiave di lettura della sua arte? Forse si, o perlomeno è sexy pensare di si.
Mentre la freccia fa click clack e prendo lo svincolo per lo stadio mi sale l’ansia da prestazione. Per distrarmi penso che sarà molto difficile parcheggiare, anche se sono venuto in motorino e casa mia dista da qui meno di sei chilometri, che per la capitale vuol dire dietro l’angolo.
Avevo avuto facilmente ragione: la gente è un fiume, a piedi, in bici, in moto, ovviamente (troppi) in macchina. Molti giovani. Accidenti quanti. Non andavo ad un concerto di Vasco da … lasciamo perdere, e il vedere tutti questi ragazzi che potrebbero essere nipoti suoi un po’ mi sorprende.
Dopo un breve diverbio per questioni di parcheggio, che finisce con un educatissimo scambio di maledizioni reciproche (che tu possa cercare parcheggio sul lungotevere e alla fine ti si guasti la macchina a un metro da un posto libero; che tu possa lasciare la macchina in zona rimozione in un giorno che la rimozione funziona davvero…Non è vero, li ho inventati io ma gli originali erano irripetibili), mi incammino verso il posto che ci è stato assegnato. Sono in tribuna stampa e vedendo lo spettacolo dell’olimpico gremito mi sento un po’ Sandro Ciotti, o Nando Martellini. Visuale perfetta. Se non fosse per il caldo opprimente di questo forse primo fine settimana di afa, che quest’anno siamo stati graziati, potrei dire che la situazione è eccellente.
Per tutta la gente che sta sul prato, tanto fitta che scommetto se lanciassi una moneta non cadrebbe per terra, la situazione è comunque eccellente. Sono arrivato che mancava mezz’ora all’inizio e non so dire da quanto fosse pieno così, però garantisco che sembrano tutti divertirsi a cantare e chiamare l’ingresso in scena dell’uomo per cui si sono sobbarcati tante scomodità.
Prima cosa che noto è la totale assenza di bandiere e striscioni. Apparirà qualche cartello durante il concerto ma veramente poca roba. Sventolano solo due bandiere, italiane, e nemmeno una con i 4 mori (tsk tsk amici sardi, stavolta mi avete deluso). Vorrà dire qualcosa? Ancora non lo so, e andiamo avanti con il racconto.
Si parte in perfetto orario e questa, detto da un'amica che da trenta anni letteralmente non si perde un concerto del Blasco, è una relativa novità essendo ormai passati i tempi in cui Vasco, un po’ in coerenza con il clichè da sconvolto, della scaletta e dei tempi programmati faceva un po’ quello che voleva. Adesso che la disciplina sembra essere la cifra nuova delle sue esibizioni, noto che questo carattere si riverbera anzitutto sull’allestimento del palco. Sono molto attento a questo aspetto, anche per ragioni estetiche oltre che professionali, e posso dire che non è sbagliato affermare che “dimmi come allestirai il palco e ti so dire come suonerai”. Una sistemazione dei musicisti molto classica, batteria al centro (dove è giusto che sia, per la miseria: non è mica un concerto jazz!) in seconda fila più avanti le chitarre con il pianista posto lateralmente e davanti, sempre al centro, il posto per la star. Molti amplificatori rigorosamente Marshall e i signori Orville Gibson e Leo Fender che da qualche nuvoletta si godono l’ennesimo successo delle loro figlie predilette. Tutto normale.
Si parte con "Vita Spericolata" che Vasco usa per sistemare la voce andandoci piano, ma senza problemi visto che è l’intero stadio a cantare con lui (e sospetto anche i condominii giù giù fino a Viale Tiziano). Mi piace subito il Maxischermo sul quale cominciano a passare immagini vagamente da film di fantascienza su cui fra simboli indecifrabili risalta la scritta io:noi e una specie di elica del dna. La vita? Vabbè, tanto vale dirlo subito che il concerto sarà dedicato alla vita. Nel nuovo corso di Vasco Rossi, che tende a presentare ogni anno una scaletta ovviamente diversa (e può farlo, data la mole della sua produzione), il filo rosso che unisce i circa 30 brani della set list è proprio questo. La vita, perchè secondo le sue stesse parole “la vita è. E bisogna anche essere pronti a rischiare per quello in cui si crede, una ricerca continua di un senso. E non c’è ricerca che non sia spericolata. Mai come in questo momento è il caso di celebrarla".
Vaste programme, avrebbe detto qualcuno. Contenere in meno di tre ore di concerto una riflessione su questo enigma frequentato da sempre dal genere umano può sembrare una presunzione o, come si dice sotto il cupolone, una sboronata. Però non c’è argomento che risulti ostile se affrontato con normalità e semplicità, questo Vasco lo sa e lo sa da sempre. Da quando cantava i piccoli comuni drammi esistenziali, le illusioni e la loro fine che poi sono sempre il sale della condizione umana. Si può parlare di vita in senso ampio perché non c’è bisogno di parole difficili, anzi proprio le parole semplici sono quelle che arrivano dritte al cuore. Vasco lo sa, e nel tempo lo ha capito ancora meglio. Azzardo che ad un certo punto abbia smesso di scrivere per sé e si sia dedicato agli altri, con uno sguardo meno introspettivo e più aperto al mondo, in ogni senso, umano, storico e persino politico, per quanto di politica in senso canonico Vasco non mi pare si sia mai occupato.
Però lo vedi che la dimensione politica emerge (che in fondo è vero che l’uomo è un animale politico) quando imbraccerà la bandiera della pace regalatagli da Don Ciotti e farà un breve discorso sull’orrore delle guerre e di chi ci guadagna sopra. Anche qui tutto con parole semplici, dirette ed efficaci.
Quindi, per tornare al filo logico, stampiamoci in testa questo avviso e continuiamo con il racconto.
"Sono innocente ma…" è il brano scelto per alzare il tiro, che Vasco non proponeva pare dal 2018, ed è perfettamente coerente con il messaggio sulla vita, ma in più (questo lo aggiungo io) anche per un tarlo che mi rode e che leggerete ancora in questo pezzo: la normalità. La vita è di tutti, ma soprattutto della gente normale, non fosse altro per ragioni di numerosità. E tutti hanno da affrontare piccoli drammi quotidiani, tutti a volte abbiamo la sensazione che il mondo ci spari addosso senza capire perché, e se reagiamo male, se abbiamo qualche macchia qua e là e qualche problema con l’autorità l’importante è rimanere in piedi. Concordo, scelta azzeccata.
Quando siamo arrivati a "Valium" (che mi dicono non riproponesse live da trenta anni) ormai è chiaro che, pezzo più pezzo meno, lo stadio è fortemente intenzionato a cantare ogni canzone insieme a lui, e a me non sfugge che averla messa prima di "Vivere", con il suo messaggio ambiguo ma traslucido di speranza, serve a dire che nonostante tutto vivere non è la domanda, ma piuttosto la risposta ai nostri guai. Vivere anche solo per raccontarla, per scacciare i fantasmi, per essere qui comunque.
Si procede con la stessa tensione e dopo "Gli spari sopra" si riprende fiato con "Quante volte" e "Il Tempo crea eroi", canzone della quale Vasco sente il bisogno di ricordare come sia stata scritta quasi cinquanta anni fa. Rileggete il testo e capirete che è proprio figlia di quei tempi, non a caso una delle sue canzoni a mio avviso più politiche in senso stretto.
Si arriva così al tutto sommato breve intermezzo per concedersi una pausa in cui la brava Roberta Montanari, di solito dedicata ai cori, si produce in un bel pezzo dal sapore quasi pinkfloydiano, subito dopo mortificata da uno strumentale tutto sommato insignificante. Ma sbrigata questa pratica (di cui ribadisco la piacevolezza del solo della Montanari) si riparte con "Buoni o cattivi" e una infilata di altri successi, diciamo minori solo per i non appassionati, sui quali Vasco si concede il lusso di gigioneggiare un po’. A questo punto sento due begli spiriti dietro di me che dicono a voce piuttosto alta “Ammazza, cambia più abiti della moglie di Bezos”, cosa che non condivido ma che riporto per puro onore di cronaca (e un pizzico di invidia, visto il caldo che fa, sul fatto di sopportarli).
Quando è il momento di "Rewind", con il rito collettivo dei reggiseni tolti e dei seni al vento, lo capisci che si è toccata un’altra tappa importante del viaggio in cui Vasco ci sta portando. E’ troppo facile dire che la vita è piena quanto è estesa la libertà? Sarà pure così ma una volta se una donna si fosse tolta il reggiseno ad un concerto la avrebbero arrestata, adesso in una esplosione di gioia la trovi proiettata sui maxischermi senza che la cosa abbia alcunchè di erotico. Io ci ho visto soltanto normale felicità: poi fate un po’ voi.
Approfitto per parlare di una occasione mancata. Il maxischermo, va detto di grandissima qualità, su cui sono rimbalzate le immagini di Vasco e della Band a mio avviso avrebbe potuto essere sfruttato meglio, dando uno spazio maggiore ad immagini di commento. Questo mi viene in mente quando su un brano strumentale che non ho riconosciuto scorrono immagini vagamente new age che culminano nella sagoma di una pecora cibernetica (gli androidi di Vasco sognano pecore elettriche?), immagini che mi sono piaciute parecchio e avrei voluto vederne di più.
Così il concerto va avanti direi senza fatica, ma anche senza particolari scossoni fino a quando non parte "Siamo solo noi" e mi rendo conto che qualcosa nella musica è cambiato. Al basso si è materializzato Claudio Golinelli alias “Il Gallo” che oltre ad essere l’emblema stesso della vita “presa a morsi” e che non si arrende mi fa notare una cosa che non avevo ancora razionalizzato e per parlare della quale comincio con il tributo da dare alla Band.
Accanto a Vasco si esibisce un gruppo ormai consolidato: Vince Pastano alla direzione musicale e chitarre, Stef Burns alle chitarre, Andrea Torresani al basso, Alberto Rocchetti alle tastiere, Donald Renda alla batteria, Antonello D’Urso alla chitarra acustica e programmazione, Roberta Montanari ai cori, con la sezione fiati composta da Andrea Ferrario (sax), Tiziano Bianchi (tromba) e Roberto Solimando (trombone). Tutta gente che sa come si porta in fondo un concerto davanti a sessantamila persone, senza alcun dubbio. E infatti di sbavature non ne ho notate. Ma è quando ha iniziato a suonare il Gallo, con quel suo sound anni ’80 e quella grinta ancora immutata che mi sono reso conto che la decisione di dare una rinfrescata agli arrangiamenti ha prodotto uno strano effetto. Volendo usare una analogia è come se restaurando una tela molto famosa si fosse prodotto un effetto di appiattimento sui colori e le ombre prodotte dal tempo. L’intera scaletta fino a qui è suonata molto compatta, troppo compatta, e mi ha fatto perdere il piacere di risentire le canzoni come erano quando sono nate. Ma non ci fate troppo caso: fisime mie.
L’epilogo è il tradizionale ed eterno ritorno con "Albachiara" che, che te lo dico a fare?, finisce per emozionare sempre anche chi l’ha sentita un milione di volte. E per questa ragione che questa volta invece di uscire come faccio sempre un po’ prima della fine per evitare di rimanere imbottigliato nel traffico, rimango al mio posto, sudato e partecipe, fino all’ultima nota.
A proposito di nota: nota conclusiva
Ma alla fine, cosa è un concerto di Vasco Rossi? La tentazione troppo facile è di accomunarlo ad un rito religioso, che del rito da qualche tempo ha preso alcune sembianze. La scelta dei brani, il vederli cantare tutti da tutti, come un salmo responsoriale o a squarciagola, o come un gospel nelle chiese metodiste. E’, sicuramente, uno stringersi tutti insieme perchè la vita è cattiva, ma sa essere anche madre tenera, semplice e affettuosa. Ed è anche l’epica della gente normale, quella che incontri sull’autobus con la faccia lunga di prima mattina, alla ricerca di un’occasione qualunque per sentirsi eroe, di qualsiasi cosa. Certo è tutte queste cose insieme, come è anche la semplicissima voglia di passare una serata ad ascoltare la musica che sentiva da ragazzo, o che sente ancora adesso pur essendo ragazzo.
E’ infine, sicuramente, l’angoscia di chi non sa cosa gli capiterà appena uscito da questo catino sudato di sessantamila anime, e c’è venuto apposta per non sentirsi solo. Fosse anche soltanto per questo a Vasco direi: tranquillo, la missione è compiuta.
Le foto della serata, a cura di Gianluca D'Alessandria