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REVIEWSLE RECENSIONI
26/11/2018
Larkin Poe
Venom & Faith
Le due sorelle Lovell, infatti, camminano in bilico fra tradizione e innovazione, plasmando le classiche dodici battute con grande modernità e azzardi stilistici che suonano decisamente anomali rispetto alla consueta visione del genere

Se ancora non lo avete fatto, segnatevi subito il nome di queste due sorelle originarie di Atlanta: una è Rebecca Lovell, voce e chitarra, e l’altra è Megan Lovell, lapsteel, dobro e voce. Due sorelle che iniziano a suonare precocemente, visto che già nel 2005, poco più che ventenni, fondano le Lovell Sisters, e pubblicano due album indipendenti di cui si fa un gran parlare nel circuito del bluegrass e dell’americana. Lunghi tour, comparsate alla radio e in tv e un successo che aumenta concerto dopo concerto.

Nel 2009, la svolta: le due ragazze, che fra i loro antenati vantano niente meno che lo scrittore Edgar Allan Poe, cambiano nome in Larkin Poe, dedicando il nome della band al loro bis bis bis nonno, cugino del grande poeta e novellista bostoniano. In tre anni, dal 2010 al 2013, pubblicano una manciata di Ep e finalmente nel 2014, vengono messe sotto contratto dalla Restoration Hardware, con cui rilasciano il loro album d’esordio.

Questa, per sommi capi, la storia che ha portato le due sorelle alla ribalta del mercato statunitense e a conquistarsi le prime pagine delle riviste specializzate. Un successo, anche mediatico, confermato dall’ottimo Peaches dello scorso anno, e ribadito da questo nuovo Venom & Faith, che porta a compimento il processo di crescita del duo e si presenta alle orecchie degli ascoltatori con le stigmate dell’istant classic. Venom & Faith è un disco di blues, meglio mettere le mani avanti, che probabilmente farà storcere il naso a molti ortodossi.

Le due sorelle Lovell, infatti, camminano in bilico fra tradizione e innovazione, plasmando le classiche dodici battute con grande modernità e azzardi stilistici che suonano decisamente anomali rispetto alla consueta visione del genere. Insomma, da un lato l’attenzione filologica alle radici è rispettata, dall’altro, però, c’è il tentativo di plasmare la materia per renderla più attuale, facendo ricorso ad un pizzico di elettronica e a ritmiche, talvolta, anche molto vicine a quelle dell’hip hop.

Le Larkin Poe, mi permetto di azzardare il paragone, fanno esattamente ciò che anni fa fecero i White Stripes di Jack White: modernizzano un suono antico, avvicinando la grande tradizione blues alle orecchie dei più giovani. Ciò non significa stravolgere tutto, e ci mancherebbe, ma aggiungere nuove spezie per ravvivare un sapore già noto.  

Il disco parte con la cover di Sometimes di Bessie Jones e capisci fin da subito il talento di queste due ragazze: brano classicissimo, handclaps primordiale, afrori sudisti, sensazione di campi di cotone e sferragliare di catene, la voce roca di Rebecca che giunge al cuore come un antico mantra. Viene evocata la rilettura che ne fece Moby nel suo splendido Play (1999), certo, ma le ragazze hanno un guizzo da fuoriclasse, quando gonfiano il pezzo con ritmica marziale e con una saltellante partitura di fiati in chiave New Orleans, che spinge la canzone in una dimensione parallela a quelle fino a oggi conosciute.

Se Beach Blonde Bottle Blues con il suo irresistibile beat suona selvaggio, graffiante e sensuale, innervando di energia un classicissimo standard, le atmosfere notturne di Honey Honey introducono un sorprendente utilizzo della batteria elettronica che contrasta con il mood paludoso e serpeggiante del brano, creando un effetto agghiacciante, tagliente ed evocativo. Le due ragazze sanno giocare meravigliosamente con gli stereotipi del blues (la slide e la polvere di Mississippi), salvo poi irrorare tensione la cupa ballata California King, un brano che rimane in bilico fra roots (l’inconfondibile suono della resofonica) e appeal mainstream. L’omaggio al Sud di Blue Ridge Mountains trasuda tradizione e baldanza campagnola, mentre la spettrale e inquietante Fly Like An Eagle porta a compimento l’ibridazione fra blues e hip hop. Un effetto straniante, che fa da antipasto alla splendida Ain’t Gonna Cry, lento e sofferto blues al neon che cresce e si gonfia di inquieti umori elettronici.

Il disco si chiude con la tradizione di Hard Time Killing Floor Blues e Good And Gone, due brani che odorano di profondo Sud e chiosano un lavoro avventuroso, intelligente e sanguigno, che pone le Larkin Poe tra le più audaci e interessanti interpreti del genere in circolazione.