“La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto” (Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia)
“La maggior parte della gente era matta. E la parte che non era matta era arrabbiata. E la parte che non era né matta né arrabbiata era semplicemente stupida” (Charles Bukowski, Pulp)
“Siete tutti così bravi, siete tutti così fighi, siete tutti così giusti, eppure là fuori il mondo è ancora pieno di gente di merda” (Charles Bukowski)
Charles Bukowski è forse l’autore che più soggiunge alla mente quando si parla dell’ultimo album dei Viagra Boys, Viagr Aboys, esordio sull’etichetta indipendente fondata dal gruppo stesso, la Shrimptech Enterprises, dopo l’addio alla Year0001. Questo perché gli ironici e divertentissimi svedesi, ormai divenuti noti al pubblico prevalentemente per i loro accattivanti show (fatti di tatuaggi e pance all’aria da parte del carismatico frontman Sebastian Murphy e di ancor più vivaci jam session live, dove ogni musicista gioca con le canzoni, facendo emergere l’attitudine sperimentale e scherzosa della band) con il quarto album hanno sottilmente cambiato le carte in tavola.
Quello stesso umorismo tagliente, che nei capitoli precedenti prendeva la forma di una derisione intelligente, divertente e divertita, qui prosegue ma si ammanta di una sottile ombra scura, dove nel sottotesto ironico al racconto sul mondo contemporaneo emerge una frustrazione e insopportazione latente verso quelle (forse ormai troppe) figure e situazioni che lo rendono così assurdo.
Una carrellata di esistenze in crisi, in ansia, ferite, intrappolate, dove a contraltare delle follie e bassezze che si riscontrano nel mondo, iniziano a vedersi anche le proprie. Una miscela talvolta letale di disperazione e ignoranza, dove se nello scorso album era la seconda a fare la parte del leone, ora è la prima che diventa preponderante. Una disperazione che, oltre ad essere osservata ironicamente negli altri, è anche introiettata, dove il sorriso diviene talvolta un po’ amaro dietro una maschera e la risata inizia a far trasparire una stanchezza che inizia a prendere il sopravvento.
Friedrich Nietzsche nel suo Al di là del bene e del male ammoniva: “quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”. Ed è un po’ quello che sembra essere successo in un album che doveva essere ancora più folle e sperimentale e invece è rimasto sulla falsariga delle ultime uscite: conservativo nelle formule, quasi sempre riproposizioni di quanto già sperimentato in passato, in alcuni casi anche depotenziate rispetto a quanto osato in precedenza. Dall’altro canto si tratta anche di un disco ben fatto, coeso e (musicalmente parlando) di più facile e immediato ascolto rispetto ai precedenti, che esigevano dall’ascoltatore una maggiore pazienza nell’entrare appieno nelle dinamiche del Long Playing.
Una scelta consapevole e voluta fatta per consolidare una fan base che si sta ampliando, o per assecondare una stanchezza generalizzata rivolta anche verso le aspettative di cui si è oggetto? Quanto quella spinta ludica e intelligente negli ultimi anni si è sentita un po' ammaccata? Quanto quello studio dell’umano, tra complottismi e stupidità, da divertente ha iniziato a diventare pesante? E se l’impegno più socio-politico del precedente album è stato definito da Murphy “estenuante”, quanto il dedicarsi alla semplice stupidità dell'esistenza quotidiana con un album “semplice e stupido” è effettivamente più leggero?
"Odio quasi tutto quello che vedo e voglio solo scomparire", recitano gli ultimi versi del ritornello di “Man Made of Meat”, e dopo l’ennesima volta che da un intrico di feed sui social, notizie televisive e su internet si incappa nella millesima lucida testimonianza di un’umanità che troppo spesso si perde tra feticismi, abbonamenti su Only Fans, pasti al Mc Donalds e chat con Intelligenze Artificiali, ci si rende conto di quante vite necessitino di colmare un vuoto nei confronti di un mondo che li sta consumando più di quanto loro stessi consumino. Poi certo, ci si ride anche su con sarcasmo, ma si inizia a sentire anche il brivido freddo dell’insofferenza. Sarà anche per questo che, dopo che per gli album precedenti Murphy era sempre in prima linea nelle attività di promozione, questa volta, al netto di sparuti interventi, per la prima volta lascia spazio quasi solo agli altri membri della band?
Viagr Aboys è un piccolo saggio ironico di art-punk che ritrae le ansie contemporanee senza temere uno sguardo surreale, scomodo e onesto. Nella maggior parte dei casi è Sebastian Murphy stesso che si pone come soggetto su cui proiettarle, con un tono che da un verso all’altro cambia repentino tra l’esilarante e la lucida intuizione, non necessariamente (anzi, quasi mai) rassicurante.
Da un lato la divertente “Uno II”, che racconta dal punto di vista del cane di Murphy un viaggio dal veterinario e i pensieri di un canide verso la propria anziana quotidianità, il proprio padrone e gli accadimenti cui è soggetto. Dall’altro il sogno febbrile di “Pyramid Of Health”, parodia grottesca e psichedelica della cultura del benessere, avvolta nell'estetica polverosa del misticismo del deserto e dell'orrore gastrointestinale; una canzone che sotto l’apparente assurdità nasconde una reale critica alle promesse impossibili di auto-miglioramento, ai viaggi spirituali commercializzati e alla disperazione del cercare di dare continuamente un senso alla sofferenza cronica.
“The Bog Body” è un brano eccentrico e inquietante che, partendo dal punto di vista di una persona stupita e insicura, contrappone le caratteristiche incontaminate e senza tempo dei resti antichi e conservati (sintetizzate nell’amore per un corpo putrefatto) al timore dell’inevitabile decadimento che le persone vive devono affrontare. Gelosia, invidia e umorismo che si specchiano nella paura di fondo che la maggior parte delle persone (tutte?) hanno di invecchiare, morire, perdere la bellezza di un tempo ed essere dimenticate. Curiosità scientifica che sfocia, ascolto dopo ascolto, in un’inquietante riflessione sin troppo umana.
“Dirty Boyz” è invece un caotico inno horror-funk che trasforma le leggende urbane e la follia alimentata da metanfetamine in un rituale di trasformazione sporco e sudato. Inizia con un avvertimento e termina come una confessione: prima l’allerta nei confronti di tutti quelli che prosperano nella sporcizia e nel caos, tra droghe e comportamenti al limite, poi la lenta trasformazione in uno di loro, come se quella folle sporcizia, una volta che si inizia a guardarla, si finisce con il capirla e la trasformazione a quel punto soggiunge inevitabile.
Ogni storia di Viagr Aboys è divertente finché non lo è più, finché non si trasforma in una tranquilla tragedia o in un orrore che inizia a sembrare sempre più familiare.
A contraltare di questi orrori del quotidiano contemporaneo, si susseguono e alternano una serie di brani emotivi, dove la disperazione si miscela sì all’ironia, ma prende una piega più personale e intima. “Medicine For Horses” è forse uno degli apici emotivi dell’album, una ballata che diviene discesa surreale ed emotivamente cruda nel nichilismo romantico e nell'esaurimento esistenziale. Un’ode tragicomica al dolore, alla memoria e al desiderio di trascendenza dove il narratore non può che aggrapparsi alla sua compagna, a cui confessa che lei è stata l'unica cosa che lo ha distratto dal vuoto infinito, l'unico legame con questo mondo. E come non avere un attimo di stretta al cuore quando al verso successivo vengono citate con nostalgia le “pianure del Nord America”, e chi ascolta sa che Murphy è nato a San Francisco e si è poi trasferito in Svezia, dove ora vive con la sua compagna. Scherzo, serietà, gioco o confessione?
Dall’altra parte, a suo modo anche “You N33d Me” non scherza, prendendo il titolo da un tatuaggio che Sebastian Murphy ha inciso appena sotto il collo, fatto durante quello che in alcune interviste ha descritto come un periodo buio e caotico della sua vita. Da una frase che da principio è ripetuta con spavalderia, una sensazione di instabilità presuntuosa e disordinata si ripercuote nella canzone, dove quelle stesse parole divengono tristi, sarcastiche e oneste, specchio di solitudini disperate e dell’assurdo binomio del sentirsi invisibili e sovraesposti allo stesso tempo, dove tutto perde di importanza senza qualcuno con cui condividerlo.
Una dichiarazione di sopravvivenza dalle ansie, quella dell’importanza dell’amore e delle persone con cui condividere la vita, che traspare anche dall’ultima traccia, “River King”, un brano rilassato e sentimentale che romanticizza i momenti banali della vita quotidiana, dove tutte le piccole cose - stupide, discutibili o belle che siano - trovano il loro senso e sembrano più leggere fintanto che si possono affrontare e vivere con le persone che amiamo.
Alla fine, forse, un amore che fa sentire l’ordinario speciale o, come insegna il film di Notting Hill, “surreale ma bello”, è l’unica cosa che salva anche da un mondo folle e disperato.