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REVIEWSLE RECENSIONI
14/03/2018
Editors
Violence
Incidente di percorso per gli Editors e incidente di percorso per Loudd: un misunderstanding (sì, accade anche ai migliori) in redazione ha prodotto ben due recensioni per un disco che forse meritava giusto un trafiletto. Ve le proponiamo entrambe. La cosa divertente è che i due autori non si sono messi d'accordo nemmeno sul voto...
di Nicola Chinellato/Luca Franceschini

Ci sono band che non cambiano mai, facendo della coerenza il loro punto di forza, e altre, invece, in continua evoluzione, come se la creatività e l’ispirazione dipendessero esclusivamente dalla ricerca del proprio io, esibito hic et nunc. Arrivati al loro sesto album, dopo tredici anni di carriera, gli Editors sono ancora alla ricerca di una definitiva identità, in un percorso che, anno dopo anno, ha prodotto piccoli, o più grandi, spostamenti da quella ricetta inziale che aveva portato alla pubblicazione di The Back Room, album d’esordio del 2005.

Un disco, quello, che pagava un debito altissimo alle sonorità post punk (Joy Division, Echo & The Bunnymen, etc.) e che seguiva la scia di malinconie al neon tracciata dalle chitarre revival dei colleghi Interpol, ma che, nonostante tutto, riusciva a suonare sincero e appassionato. An End Has A Start (2007) era quasi la logica continuazione di quel primo disco, come se la band, spogliatasi dalle ingenuità iniziali, avesse preso consapevolezza della propria forza e della capacità di sviluppare con personalità idee risapute. Ne conseguì un’opera più matura, che alternava alle consuete atmosfere crepuscolari momenti di forte comunicativa pop.

Poi, la svolta synth di In This Light And On This Evening (2009), che sfumava ulteriormente il mood dark-wave dei primi due album, il successivo The Weight Of Your Love (2013) che sceglieva la strada mainstream del rock da stadio, e l’ultimo, in ordine di tempo, In Dream (2015), capace, in chiave elettronica, di rinsaldare nuovamente il legame con certe atmosfere ossianiche dei primi due lavori.

Il nuovo Violence rappresenta un ulteriore spostamento di traiettoria, una nuova sterzata sulla strada di una carriera che, certo, lineare non è. Se era chiaro, ormai, che l’elettronica rappresentava un punto di non ritorno rispetto al più lontano passato, è altrettanto vero che mai come in questo disco la band ne faccia cifra estetica unica, in un micro cosmo sonoro, in cui i graffi chitarristici e gli umori noir vengono prevalentemente accantonati in favore di un pop più solare e pompato.

La continuità è rappresentata dal timbro vocale unico di Tom Smith, monumentale nei suoi sprofondi baritonali, anche nei momenti in cui tutto intorno a lui appare falso come una banconota da settanta euro. Già, perché nonostante tutta la buona volontà di chi, come il sottoscritto, ha voluto bene agli Editors fin dagli albori, qui si fatica ad ascoltare qualcosa che funzioni veramente. La produzione, in condominio con Leo Abrahams, è laccata e modernissima, ma gonfia a dismisura idee che paiono risicate all’osso.

Una scaletta uniforme, questo si, che attinge a piene mani dagli anni ’80 (anche se in questo caso vengono in mente i Simple Minds meno ispirati), e in cui tutto sembra indirizzato alla ricerca del ritornello che funzioni in radio o al beat che riempia il dance floor. E’ la logica dello strike a pose a tutti i costi, della vanagloriosa forma che sovrasta la sostanza, di un appeal esibizionista che cerca l’eleganza e la modernità, e che finisce, spesso, per trovare solo momenti di involontaria tamarraggine (la terrificante Hallelujah (So Slow)).

Mancano soprattutto le canzoni, e non credo sia solo un problema di iper-produzione: si fatica a trovare intuizioni di cui ci ricorderemo fra qualche mese, e anche i migliori episodi in scaletta, la ballata pianistica No Sound But The Wind, con una magistrale performance interpretativa di Smith, e la carezzevole melodia di Belong, suonano come sgranati e prevedibili deja vù. Se gli Editors, in virtù della loro irrequietezza stilistica, erano riusciti, in passato, a creare una frattura tra fan della prima ora e nuovi adepti al verbo del synth, con Violence metteranno probabilmente d’accordo tutti: questo è il disco più debole e deludente dell’intera carriera.

(NICOLA CHINELLATO; Voto: 5)

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Il problema di Tom Smith, forse, è quello di volere il successo a tutti i costi. Non si spiegherebbero altrimenti le continue manovre diversive e le giravolte che ha fatto condurre alla sua creatura nel corso degli anni. Non è un mistero, del resto, che Chris Urbanowicz, chitarrista, membro fondatore, indispensabile nel lavoro di songwriting sui primi tre album della band di Birmingham, se ne sia andato per contrasti in merito alla direzione da tenere.

E non sarà un caso, probabilmente, che da quando ha abbandonato la nave, il cammino degli Editors abbia seguito linee tortuose e non propriamente lucide, condizionato spesso e volentieri dall’ansia da prestazione, ondeggiando di continuo tra il desiderio di approdare a platee più vaste e l’esigenza di non appiattirsi troppo per conservarsi i fan della prima ora.

I risultati, purtroppo, sono stati alquanto deludenti, almeno per chi scrive. Gli Editors dei primi due dischi, con la loro scura e magniloquente Wave, derivativi ma in grado di scrivere canzoni iconiche e indimenticabili, sono ormai definitivamente scomparsi; sono però un lontano ricordo anche quelli di “In This Light and on This Evening”, che ne contaminava il sound con massicce dosi di elettronica ma riusciva comunque a mantenere alta l’asticella della qualità.

I due lavori realizzati con la nuova formazione hanno visto un bieco tentativo di scimmiottare i peggiori U2 (il deludente “The Weight of Your Love”, nel 2013) e un piccolo sforzo per unire la vena scura delle origini con una strizzata d’occhio alle classifiche (“In Dream”, uscito nel 2015 e contenente tutto sommato dei buoni momenti, pur se lontanissimo dalle loro cose migliori).

Ora che abbiamo tra le mani “Violence”, sesto e nuovo capitolo di questa carriera così marcatamente a due velocità, possiamo dirci abbastanza sicuri di essere al cospetto di una band finita. Per carità, i mezzi impiegati sono sempre imponenti: dalla produzione, affidata ad un mostro sacro come Leo Abrahams, agli arrangiamenti, in parte dovuti alla sapiente mano di Blanck Mass, non si può dire che Smith e compagni non abbiano voluto mettere in piedi un team vincente.

Il problema, mi pare, sta proprio nella mancanza di ispirazione. Che i cinque vogliano esplodere e diventare una delle band di riferimento per il rock contemporaneo non è più un segreto per nessuno; e non sarebbe neppure un problema, se solo fossero in grado di scrivere grandi canzoni.

I due singoli che hanno buttato fuori tra gennaio e febbraio, invece, sono quanto di peggio abbiano mai prodotto nella loro storia. Il piglio ruffianissimo di “Magazine”, con le sue chitarre robuste e l’incedere anthemico del ritornello sembrava prendere la via più facile e scontata per arrivare agli ascoltatori di Virgin Radio. La successiva “Hallelujah (So Low)”, un triste tentativo di fare il verso ai Muse, ha rappresentato invece un colpo al cuore durissimo da sopportare.

Devo ammettere che non è stato facile mettersi all’ascolto del disco completo. Alla fine, tuttavia, non è stata neppure quella tragedia senza precedenti che temevo. Per carità, il disco è mediocre e non risolleverà certo le sorti di un gruppo che, almeno artisticamente parlando, pare avviato a grandi falcate sul viale del tramonto. Allo stesso tempo però, le cose più brutte ce le hanno riservate sui singoli, il resto del contenuto è se non altro leggermente meglio, pur con i dovuti distinguo.

Cominciamo col dire che il lavoro di Blanck Mass è stato davvero egregio nel creare un tappeto di Beat che ha immerso tutto il disco in un’atmosfera oscura e a tratti gelida e straniante, quasi ad incarnare quella difficoltà di comunicazione di cui si parla in alcuni dei testi. Gli Editors hanno così ritrovato una vena elettronica che è la più marcata dai tempi di “In This Light…” e che nobilita, seppur parzialmente, quella faciloneria radiofonica nella quale sembravano ormai totalmente immersi.

È il caso dell’iniziale “Cold”, che al netto dei suoi fastidiosi coretti sui ritornelli (un escamotage purtroppo adottato anche in altri episodi, forse stanno già pregustando gli stadi pieni) riesce a funzionare abbastanza, soprattutto nella sua prima metà. La title track è forse il momento migliore, quello dove la scrittura recupera quella malinconia e quella tensione che tanto abbiamo amato in loro e li coniuga con un’interpretazione vocale da brividi (Smith è sempre stato un grandissimo cantante e per fortuna non si è ancora smentito). Il crescendo elettronico del finale, con le sue suggestioni da club, risulta ben inserita nel contesto. Un brano che per una volta lascia libera l’energia creativa e non ha paura di osare. Purtroppo è anche l’unica volta che accade. Il resto in effetti è interlocutorio, con brani troppo ammiccanti per sembrare credibili (“Darkness at the Door”), tentativi non riusciti di giocare ancora la carta del Beat (“Nothingness”, “Counting Spooks”) e un finale che vorrebbe essere ad effetto, pregno di grandeur orchestrale (“Belong”).

A conti fatti, la cosa più bella che c’è qua dentro è un pezzo di dieci anni fa: non si capisce che motivo avessero di inserirla ma “No Sound But the Wind”, registrata per la colonna sonora di un episodio della saga di “Twilight” (non chiedetemi di ricordarmi quale, vi prego) e inserita più avanti nell’ormai introvabile “Unedited”, mastodontica raccolta di bside, rarità e versioni alternative. Questa nuova versione, spogliata dei vari strumenti, rallentata nell’andamento e ridotta ad una scabra ed essenziale ballata piano e voce, ne mette in risalto tutta la passione e l’eleganza. Una delle più belle canzoni mai scritte da questa band. Sarebbe stato più coerente metterla come bonus track ma forse così è ancora meglio: sarebbe stato un peccato che una gemma del genere non venisse valorizzata.

“Violence”, se pure abbandona i toni zuccherosi che echeggiavano in parte sui due dischi precedenti, per recuperare un’oscurità e una chiusura su se stesso che può farci anche piacere, offre davvero pochi spunti di ottimismo e potrebbe dunque rappresentare la pietra tombale di una band che è rimasta forse vittima delle sirene della fama a lungo inseguite dal proprio leader.

Se otterranno davvero quello che cercano, non lo so. Di sicuro sono fiduciosi, viste le dimensioni dei posti dove si esibiranno nell’imminente tour europeo (a Milano suoneranno al Forum); in ogni caso, a me interessa poco: che un sacco di gente li scoprisse con un album del genere, mi metterebbe addosso solo molta tristezza.

(LUCA FRANCESCHINI; Voto: 5)