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REVIEWSLE RECENSIONI
09/03/2023
Kerala Dust
Violet Drive
I Kerala Dust dimostrano di padroneggiare benissimo le loro influenze, declinandole in un lotto di canzoni affascinante e dove la notevole varietà stilistica non va mai a discapito della coerenza d’insieme. Vale la pena recuperarli, sarebbe un peccato se andassero persi nella frenesia delle uscite settimanali.

Nel mare magnum di artisti e uscite  discografiche, dove è facilissimo perdersi dei nomi anche se sono attivi da diversi anni, questi Kerala Dust sono stati una piacevole scoperta. Li ha fondati Edmund Kenny, che aveva bisogno di qualcuno con cui suonare della musica da lui composta (che sarebbe poi confluita nell’EP Motions, del 2016), e ha coinvolto due compagni di università: Lawrence Howarth alla chitarra e Harvey Grant alle tastiere. Il nome lo ha preso dal periodo in cui ha lavorato in India per un’organizzazione no profit e aveva un collega che proveniva dal Kerala, una parola che gli è sembrata sufficientemente evocativa da poter descrivere la musica che si attingeva a proporre.

Siamo più dalle parti delle suggestioni sonore, l’Oriente di suo c’entra poco: Violet Drive, il successore dell’esordio su lunga distanza Light, West (2020), è stato registrato tra Berlino e le Alpi svizzere e, come dichiarato dallo stesso Kenny, ha ereditato qualcosa da entrambe le location: da una parte le atmosfere cupe, notturne e sognanti tipiche dei cieli stellati e degli spazi aperti; dall’altra la componente elettronica e l’estetica Urban che, a suo dire, è derivata dal periodo trascorso in una delle capitali mondiali della musica da Club, oltre che un posto frenetico, che si rifiuta di andare a dormire.

Ne è scaturito un lavoro sorprendentemente eterogeneo, conseguenza forse anche di un processo di gestazione particolarmente lungo, anche se poi, una volta preso il via, le canzoni sono state scritte tutte in cinque giorni.

 

C’è un po’ di tutto, qui dentro, col filo conduttore che è rappresentato dal minimalismo elettronico di artisti come Steve Reich e Philip Glass (indicati da Kenny come le sue principali fonti d’ispirazione) e dunque da composizioni che vivono soprattutto della reiterazione di sequenze. Diluite all’interno di brani che rispettano comunque la forma canzone, ci sono anche echi di compositori italiani come Ennio Morricone ed Egisto Macchi (Edmund ama citare la sua passione per Il Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza). E poi la New Wave, il Kraut Rock, il cantautorato americano: mondi apparentemente lontani e incomunicabili, che tuttavia il trio londinese riesce a far dialogare in maniera fluida e credibile, nonostante l’inevitabile effetto déjà vu che fa capolino a più riprese.

Si parte nella maniera più diretta possibile, con una “Moonbeam, Midnight, Howl”, che vive di elettronica pulsante, atmosfere notturne come del resto già promesso dal titolo, schitarrate nella parte centrale e un feeling generale che ricorda i Depeche Mode più scarni degli anni ’90, da Ultra ad Exciter. La title track si muove sulla stessa falsariga, incentrata sulle frequenze basse, parti di chitarra elaborate ed evocative sullo stile dei Can. Il tutto corredato da melodie vocali azzeccate, una costante dell’intero disco, che ha nella prova di un Kenny Dust sempre molto a fuoco uno dei suoi principali punti di forza.

“Red Lights” porta invece il gruppo dalle parti di Tom Waits, di cui è smaccatamente evocato il periodo Rain Dogs. Un omaggio forse un po’ troppo filologico, per un brano che funziona comunque bene, ritornello di facile presa e un fraseggio melodico suonato alla chitarra che risulta tra le cose più immediate dell’album. Il cantautore californiano è presente anche in “Jacob’s Gun” e “Salt”, notturna e chitarristica la prima, quasi jazzata la seconda, scarna nella prima parte e riempita successivamente da percussioni e suggestioni rumoristiche.

“Pulse VI” si muove ancora una volta in territori Kraut, e tra vocals ipnotiche ed echi Dance risulta essere una delle più ispirate. Molto bella anche la pianistica “Still There”, che cita apertamente la Folktronica di Notwist e Howling. “Future Visions” invece spiazza totalmente con le sue sonorità Trip Hop (l’intro è praticamente un plagio di “Glory Box”) mentre la conclusiva “Fine di una scena” (la seconda ad avere il titolo in italiano, l’altra è il breve strumentale elettronico “Nuove variazioni di una stanza”) è una splendida ballata in tono minore dal sapore classico, ulteriore prova di uno spettro compositiva decisamente variegato.

 

Niente di nuovo, tutto molto derivativo e in certi casi anche manieristico. Eppure i Kerala Dust dimostrano di padroneggiare benissimo le loro influenze, declinandole in un lotto di canzoni senza dubbio affascinante, dove la notevole varietà stilistica non va mai a discapito di una generale coerenza d’insieme.

Vale la pena recuperarli, sarebbe un peccato se andassero persi nella frenesia delle uscite settimanali.